mercoledì 28 febbraio 2007

IL DOLORE


Non volevo più scrivere sin dopo l’Otto Marzo, per ristabilire una sequenza cronologica corretta… Mi sfuggono, invece, queste parole che dedico, come sempre, a tutti voi ed in particolare ad un’amica che conosce molte delle sfumature del dolore…

In quegli anni vivevo a Milano.
Mi svegliai una mattina piegato in due da un dolore lancinante che mi mordeva i fianchi, la vita, la schiena, togliendomi letteralmente il fiato.
Al Pronto Soccorso diagnosticarono una colite spastica, mi rifilarono una compressa di “Buscopan” e mi rispedirono a casa.
Rammento che sul taxi che mi portava indietro mi trovai a pensare: “Se mi dicessero che urlare fa cessare il dolore…non c’è problema: io urlo, eh?!”

Il dolore infatti non accennava a diminuire e non mi dava un attimo di tregua, dato che, in realtà, ero in totale blocco renale ed il “Buscopan” , di conseguenza, aveva avuto, più o meno, lo stesso effetto di un sorso d’acqua fresca, considerando che per quel genere di dolori abitualmente s’interviene con la morfina!

Finalmente il vecchio medico di famiglia azzeccò la diagnosi giusta: nuovo viaggio al Pronto Soccorso e, questa volta, interventi più mirati e più efficaci.

Il giovane medico che mi stava pompando in vena analgesici pesanti e soluzioni reidratanti, scandalizzato dall’errore dei suoi colleghi, mi disse per confortarmi:
“Mi stupisco che non sia svenuto per il male, con tutte le ore che l’hanno lasciato in questo stato! Lei saprà che i dolori di un blocco renale sono paragonati a quelli del parto!”

Con la raffinatezza che sempre mi contraddistingue io gli risposi, a muso duro: “Col cazzo!”

Di fronte alla sua espressione stupita e vagamente offesa mi sentii in dovere di precisare:
“Vede, dottore…” – gli dissi – “…sono certo che una donna soffra molto, al momento del parto. Ma, per la miseria, sta mettendo al mondo una nuova vita! Io, al massimo, piscerò un paio di pietre: a me fa molto più male!”

Ora: il dolore non è piacevole mai, ma, purtroppo, fa parte della nostra esistenza.
Sta a noi decidere se sarà un parto da cui far nascere una nuova vita, una nuova prospettiva, una nuova opportunità, o se sarà soltanto un inutile, sterile, improduttivo blocco renale.
Se soffriamo e questa sofferenza porta con sé solo angoscia, rabbia o, peggio, rassegnazione, ci farà molto più male, perché sarà un dolore inutile.
Nietzsche non è tra i miei filosofi preferiti, tuttavia mi sento di concordare con lui quando afferma: “Tutto ciò che non mi distrugge, mi rafforza”.

Ecco: è così che dobbiamo, io credo, vivere il rapporto con il dolore, specialmente con quello psichico: come una dura palestra nella quale trovare nuova forza per camminare nella vita, orgogliosi delle nostre cicatrici.
Abbiamo il diritto di sentirci stanchi, ogni tanto.
E, poi, come dice una bella poesia che, prima o poi, ritroverò e pubblicherò, abbiamo il dovere di alzarci di nuovo in piedi, con l’anima pesta, “…per fare quello che c’è da fare per i bambini…”.

…e se arriva il momento che ci sembra di non riuscire a reggerci da soli… si chiede aiuto.
Perché gli amici servono a questo.

lunedì 26 febbraio 2007

8 MARZO


Non è San Valentino o, almeno, non dovrebbe esserlo. Non è andare a mangiare una pizza con le amiche o, peggio, a vedere uno spogliarello maschile. Non è ricevere un mazzetto di mimosa. E' quello che ho cercato di dire nell'intervento precedente: un doveroso, commosso e sincero omaggio alla parte migliore dell'umanità.
Io, se scrivo poesie, non le pubblicizzo nel blog per un mio ritegno personale; non scrivo canzoni perché non sono abbastanza bravo; ogni tanto, però, mi "scappa" una di quelle che io chiamo "ballate" e, per questa "ricorrenza" tanto mal interpretata, ve ne propino una.

Pane e rose a tutti.


DONNE

Siamo la madre, l’amante, la sorella,
siamo la tua parte migliore,
quelle capaci di rendere bella
una giornata senza colore.
Siamo Penelope che disfa la tela,
ma anche Circe la seducente,
siamo Eva che coglie la mela,
ma anche l’amica, la confidente…
Siamo le donne che ti stanno al fianco,
quelle di cui non puoi fare senza,
che ti consolano quando sei stanco...
e che subiscono la tua violenza.
Siamo le figlie dei padri assenti,
siam le “sedotte e abbandonate”,
quelle che tacciono stringendo i denti,
siamo le mogli che son trascurate,
le prigioniere dietro ai fornelli,
sante di giorno e poi, nelle sere,
pronte a sciogliere i lunghi capelli
per simulare di provar piacere…
Siamo le donne che tengono accesa
una candela alla finestra,
quelle che sono invecchiate in attesa
di chi ha perduto la via maestra…
Siamo le donne ridotte ad oggetto
perché si vendano auto e profumi,
siamo la rondine sotto il tuo tetto…
Sì, siamo noi: le donne comuni.

IL PANE E LE ROSE


Gioco molto d’anticipo perché, quest’anno, vorrei essere il primo.

Vorrei essere il primo ad augurare alle donne che si trovassero a passare per questo sito un Otto Marzo ricco di incantevoli ed intense emozioni.

Non ricorderò tutta la storia, bellissima ed anche drammatica, che ha portato a scegliere questa data come Giornata Internazionale della Donna: vorrei narrare solo un particolare, un piccolo dettaglio che mi ha, da sempre, molto toccato.

Esattamente 150 anni or sono, l’Otto Marzo del 1857, praticamente per la prima volta nella storia migliaia di donne, lavoratrici dell’industria tessile, scesero in piazza a New York per rivendicare più umane condizioni di lavoro.
La cosa destò scalpore e persino orrore nella buona borghesia americana ed i giornalisti dell’epoca si precipitarono ad intervistare queste donne che osavano esigere i loro diritti in modo tanto plateale e chiassoso.

“Ma, insomma…” – domandò uno di loro ad una scioperante – “…in sostanza cos’è che volete?”

La risposta non poteva essere più essenziale e, nello stesso tempo, significativa.
Sorridendo la giovane scioperante rispose:

“Vogliamo il pane, ma anche le rose!”

Solo una donna, io credo, avrebbe potuto trovare tanta poesia e concisione in una frase che racchiudesse le ragioni di una lotta.

Confesso che, da quando mi narrarono questa storia, quando accadeva, in qualche angolo di mondo dove mi ostinavo a scagliarmi contro i mulini a vento, che qualcuno mi chiedesse perché lo facevo, amavo rispondere: “Perché voglio il pane, ma anche le rose”.

Ciò che voglio augurare alle mie lettrici (ed anche ai lettori) non è di poter avere con certezza nella vita il pane delle cose necessarie e le rose delle cose belle: di questo, purtroppo, non c’è garanzia.

Vi auguro, invece, di non perdere mai la voglia di lottare per ottenerle.

Buon Otto Marzo.

domenica 25 febbraio 2007

FRAMMENTI 3


Se la storia di Martin vi ha toccati, che dire di quella di un ragazzo che chiameremo Donato?

Quando lo conobbi aveva solo 17 anni.
E voleva morire.

La storia è questa: il padre di Donato era un piccolo imprenditore edile, gran brava persona, sempre disposta a dare una mano agli altri. Tra l’altro aveva assunto per i suoi cantieri, su indicazione dei Servizi Sociali, dei ragazzi ex detenuti, ex (o quasi) tossicodipendenti, per dar loro un’opportunità, una seconda occasione.
Nessuno sa come avvenne: forse passandosi degli attrezzi ci fu un contatto sangue-sangue…sta di fatto che il padre di Donato contrasse il virus HIV. Prima di accorgersene ebbe normali rapporti sessuali non protetti con la moglie: lui era sieropositivo, lei entrò subito in AIDS conclamato.
I due genitori scelsero di non dire nulla a Donato: lui sapeva solo che la mamma non stava bene, doveva fare delle analisi, entrava ed usciva dagli ospedali e ne aveva sempre una.
Continuò, quindi, a comportarsi come un normale adolescente: ogni volta che sua madre gli parlava era come se lo salutasse per l’ultima volta, ma lui non lo sapeva…
“Mi raccomando! Non fare arrabbiare papà!” “Mamma, sei una rompiballe!”
La madre peggiorò. Un giorno, rientrando con degli amici, Donato la trovò svenuta: l’intestino s’era rilassato e sua madre giaceva a terra nei suoi escrementi.
Donato provò vergogna, pensò che fosse ubriaca e l’odiò per la figura che gli aveva fatto fare…

Poi la ricoverarono nel reparto grandi infettivi ed a Donato fu detta la verità.
Quando lo conobbi mi disse: “Glielo urlato! Le ho gridato “Mamma ti voglio bene!” …Ma c’era quel vetro del cazzo tra noi! Non credo mi abbia sentito!”

Donato aveva 17 anni, un aspetto sano, una gran zazzera di capelli rossi…e voleva morire per raggiungere sua madre e dirle che le voleva bene.
Mentre nella sala dello stage mi occupavo di un’altra persona (che aveva problemi con la madre) sentii un tonfo alle mie spalle: Donato era caduto dalla sedia e giaceva a terra, in posizione fetale, in uno stato che era simile alla catatonia.
Ebbi paura, in quel momento. Una fottuta paura, perché sapevo che la sua mente, schiacciata da sensi di colpa troppo pesanti per essere sopportati, poteva rifugiarsi in luoghi così remoti che nessuno avrebbe più potuto raggiungerla.

Dovevo fare qualcosa di estremo…e dovevo farlo in fretta.
Lo feci trasportare in una saletta laterale e chiesi di restare solo con lui. Usai tutto ciò che conoscevo per “stabilire un contatto”, per avere una ragionevole certezza che gli giungessero le mie parole: il lavoro fatto con diverse persone in coma giocava a mio favore. Mi sentiva, ne ero certo, ma non aveva nessuna intenzione di ritornare alla vita…non per se stesso, almeno.
Estrassi dalla cintura il coltellaccio “da Rambo” che avevo portato con me e gli feci sentire il freddo della lama su una guancia…
“Sai cos’è questo?” – gli chiesi – “E’ il mio coltello. Ora io vado all’altro lato della stanza e comincio a farmi dei tagli sul corpo. E non smetto sino a che tu non vieni a fermarmi!”

E lo feci.
Non potevo simulare: il suo dolore meritava rispetto e sincerità e doveva “sentire” che qualcuno era disposto a versare sangue per lui.

Non mi lasciò arrivare al terzo taglio: strisciando prima, avanzando carponi poi, mi raggiunse e mi strappò il coltello dalle mani.
Poi giacemmo insieme, piangemmo insieme e, insieme, ricominciammo il cammino verso la vita.

Ah! Se dovete dire a qualcuno “ti voglio bene”…fatelo adesso.

EUCLIDE E LA BICICLETTA


Evidentemente ho destato una certa curiosità con i miei post. Alcuni commentano, altri mi scrivono e, sotto-sotto, sento aleggiare la domanda: “Sì, belle parole… Ma, praticamente, cosa fai a questi stage di cui parli? Qual è la tua metodologia?” A futura memoria posso cominciare a dire questo…a modo mio, naturalmente.

Senza consultare Google, per favore.

Chi di voi sa citarmi il Secondo Teorema di Euclide?
Nessuno, credo. Neppure io. Faccio questa domanda da trent’anni circa e non ho praticamente mai trovato qualcuno che se lo ricordasse. Eppure lo abbiamo studiato tutti, lo abbiamo dimostrato alla lavagna, abbiamo risolto problemi che prevedevano il suo uso.

Dato, però, che il Secondo Teorema di Euclide nella vita reale non serve ad un belino di niente, lo abbiamo messo nello “stanzino delle scope” del nostro cervello, con milioni di altre cose inutili…e ci vorrebbe l’ipnoterapia per farlo emergere da lì.

Ora un’altra domanda: sapete andare in bicicletta? O nuotare?
E quanti libri avete studiato per imparare a pedalare o stare a galla?
Nessuno, vero?
Eppure potete lasciare la bicicletta in cantina anche per vent’anni e quando, poi, risalite sul sellino ricordate perfettamente cosa fare; potete non nuotare per tutta una vita, ma, se avete imparato un tempo e cadete in acqua, sapete esattamente come muovervi.

Perché sono cose che non abbiamo appreso attraverso la ragione, ma attraverso il corpo e le emozioni.
Ciò che imparo con la ragione diventa parte della mia cultura…e lo ricordo solo se lo uso, se mi serve.
Ciò che apprendo per mezzo del corpo e delle emozioni “prelogiche” diventa, invece, parte della mia natura… e non lo posso più scordare.

A volerla far semplice è tutto qui: per questo, negli stage che conduco, non ci occupiamo del Teorema di Euclide: si impara ad andare in bicicletta.

E poi, ovviamente… si pedala.

sabato 24 febbraio 2007

LA GOLA DEL LUPO


Nessuna azione umana è stata più fraintesa del perdono, almeno qui in Occidente.

Paghiamo il prezzo di un’educazione e di una morale giudaico-cristiana che ce lo ha sempre presentato come un nobile dovere verso chi ci ha offeso…in altre parole una dimostrazione di superiorità:
“Tu mi hai mancato di rispetto, ma io sono così generoso e superiore (appunto) che ti perdono!”

Niente di più falso… ed è la stessa etimologia della parola che dovrebbe suggerircelo:
PER – DONARE, ovvero, per poter dare ancora e, come vedremo, per poter anche ricevere.
Per-donare significa fare un regalo a noi stessi, non alla persona perdonata; vuol dire offrirci nuove opportunità, nuove occasioni… Significa non fermarsi nel passato.
Facciamo un esempio?

Ho amato, sono stato tradito e non riesco a perdonare la persona che ha abusato della mia fiducia. Come minimo diventerò guardingo, sospettoso, restio a concedermi di nuovo per paura di soffrire ancora… e mi negherò in questo modo nuove, fresche emozioni.

Ma c’è di più…
Mettiamola così: quando due persone che si sono amate si lasciano, chi è che soffre di più? Quello che è lasciato? Quello che amava più sinceramente?
No. Se non stiamo attenti c’è una persona che soffrirà ancora di più: quella che viene dopo.
Se non siamo stati capaci di perdonare sarà lei a pagarne il prezzo, lei che cercherà la nostra pelle e troverà il freddo acciaio della corazza che ci siamo messi addosso.

La prova del fraintendimento del perdono sta, anche, nell’interpretazione del famigerato messaggio evangelico del “porgere l’altra guancia”, che i più intendono come un umiliarsi in nome di un pacifismo esasperato.

Come Konrad Lorenz ci ha insegnato, quando due Lupi si battono ed uno dei due avverte la maggior sicurezza dell’altro, fa un gesto preciso: gli offre la gola, il suo punto più vulnerabile… e questo fa scattare nel Lupo vincitore un riflesso inibitorio che gli impedisce di mordere. L’adrenalina scorre così impetuosa nelle sue vene che, spesso, addenta un ramo, morde un cespuglio…ma non azzanna mai il suo avversario.
“Porgere l’altra guancia” significa, in realtà, la stessa cosa di “Fermare la Lancia”: far cessare la violenza con un gesto di grande e vero coraggio.

Avrei un chiaro esempio piuttosto divertente…ma il numero di caratteri impone una certa stringatezza anche ad un logorroico come me.

Sarà per un’altra volta…

venerdì 23 febbraio 2007

INTERVALLO DISTENSIVO


ATTENTI AL MIO LATO OSCURO...

giovedì 22 febbraio 2007

VEDERE IL BAMBINO


A proposito di “trovare il Santo” negli altri…

Lo stage si svolgeva a Como. A quel tempo arrivavano persone da ogni parte d’Italia e solo poche di loro avevano sostenuto il colloquio preliminare con me. Delle altre, malgrado da tempo insistessi inutilmente perché si compilassero schede personali, il più delle volte non sapevo nulla e mi toccava comprendere i loro problemi “in corso d’opera”.
Così fui preso del tutto alla sprovvista quando quell’uomo sulla quarantina, con l’aspetto del ragioniere al catasto e bravo padre di famiglia, confessò che non solo era un pedofilo, ma anche che era stato coinvolto in una sorta di commercio di bambini Thailandesi.

Avevo da poco finito il mio “numero” con la Spada e non mi ero ancora cambiato.
Mi accorsi che le dita della mia mano destra si stringevano attorno all’impugnatura: mi sentivo, in quel momento, freddo e duro come l’acciaio della mia Katana, mentre
l’adrenalina si riversava nelle mie vene, preparandomi all’azione.
Ogni mio nervo, ogni muscolo era teso come una corda di violino, eppure ero stranamente rilassato nel profondo, intanto che visualizzavo cosa sarebbe accaduto di lì a qualche secondo: la lama che sgusciava fuori dal fodero in un arco elegante, essenziale; il filo della Spada che sfiorava quasi delicatamente il collo di quell’individuo, prima che richiamassi la Katana a me con un gesto deciso… Mi parve addirittura di poter “udire” il suono che avrebbe fatto la sua testa cadendo sulla pesante moquette della sala…

Fortunatamente al mio fianco c’era una persona che mi conosceva piuttosto bene ed alla quale non sfuggì, probabilmente, la luce che mi si era accesa negli occhi: mi abbracciò e, gentilmente, mi trascinò fuori dalla sala.
Mi chiusi in una delle toilette dell’hotel, spaccai con un pugno una tavoletta di legno e poi, non essendomi bastato, presi a cazzotti anche le piastrelle della parete, sino a farmi sanguinare le nocche.
Rientrato in sala chiamai uno dei miei collaboratori e gli bisbigliai: “Questo trattalo tu: io non ce la faccio!”

Venti minuti dopo, la stessa persona che mi aveva ispirato sentimenti omicidi era in ginocchio su quella moquette, che piangeva disperatamente, ululando come un animale ferito, rivivendo il momento in cui lui stesso, da bambino, era stato violentato.

Mi fu tutto chiaro, allora.
Ero ancora deciso a non aiutare in nessun modo quello spregevole uomo…ma era mio dovere, mio preciso dovere, tendere una mano a quel bambino.

Se avete il coraggio, la costanza, l’infinita pazienza di guardare a fondo, nell’angolo più riposto e più nascosto dell’animo umano, scoprirete che, sempre, dietro ai comportamenti anche più aberranti, anche più disgustosi, anche più ignobili, si nasconde un bambino tremante che sta chiedendo aiuto.

Ecco. E’ tutto qui… Se non vi riesce di vedere il Santo negli altri, se non incontrate il “dio” che è in ognuno di noi…abbiate occhi per quel bambino, ascoltate il suo pianto.

Il resto è facile e viene da sé.

NAMASTE'


Anche se gli avvenimenti di queste ore mi agitano la mente (solo quella: lo spirito è tranquillo) manterrò fede a ciò che mi sono riproposto, ovvero lasciare la politica in senso stretto fuori da queste pagine. Continuerò ad “occuparmi dei singoli alberi” nella speranza che questo, un giorno, muti l’aspetto della foresta.

Anni or sono un amico mi passò un libricino intitolato “Il Santo”, da non confondere con l’omonimo romanzo di Fogazzaro. Francamente non ricordo l’autore, né posso recuperarlo perché è uno dei tanti libri che, usciti da casa mia sotto forma di prestito, si sono poi mutati in regalo involontario, non tornando mai indietro.
Narrava di un vecchio che, un bel giorno, inizia a restaurare una casa fatiscente, collocata sulla cima di un colle. Dopo qualche tempo le persone della sottostante città che hanno avuto modo di parlare con lui cominciano a spargere la voce che è una persona saggia, che le sue parole placano l’anima, che, forse, ha guarito degli ammalati con il tocco della mano. Cominciano a chiamarlo “il Santo” ed alcuni decidono di aiutarlo nella sua opera di ricostruzione. In breve la vecchia casa si trasforma in una specie di convento, popolato da una piccola comunità che si stringe attorno al Santo per godere della sua parola e che sceglie anche d’indossare un umile saio come simbolo della loro scelta.
Dalla città, inoltre, sempre più persone si recano a fargli visita, incuriosite dalla sua figura.
Il libro narra ciò che accade nella mente e nel cuore di molte persone in coda davanti al “monastero”, delle trasformazioni che avvengono in loro… quasi a dire che non è tanto la meta a contare, quanto l’atto del mettersi in un viaggio di ricerca.
Tuttavia, alla fine del libro, veniamo a sapere anche cosa accade a chi, finalmente, dopo giorni di attesa, riesce a bussare alla porta della vecchia casa sulla collina.
Un anziano, che indossa un saio come tutti gli altri del “monastero”, apre loro la porta.
“Voglio vedere il santo” chiede il nuovo arrivato.
“Seguimi” risponde il vecchio e lo guida per un lungo corridoio. A destra ed a sinistra si aprono delle porte dietro alle quali altre persone ricoperte dal saio lavorano, meditano, mangiano… Giungono infine alla porta in fondo al corridoio, prospiciente a quella d’entrata. Il vecchio la apre ed invita il visitatore a varcarla…e questi si ritrova all’esterno, fuori dalla casa.
“Ma io volevo vedere il Santo!” protesta.
“Lo hai visto” risponde il vecchio sorridendo.
Tanto per non lasciare dubbi sul messaggio, per qualcuno aggiunge: “Tratta ogni persona che incontri come se fosse il Santo!”

Quando lessi questo libro restai con un senso di deja vù, come se mi ripetesse qualcosa che già sapevo. Poi ricordai: il modo di salutarsi dell’India, naturalmente…
“Namasté” letteralmente significa “Saluto il Dio che c’è in te”.

Quanto cambierebbe il mondo se riuscissimo a scorgere il Dio che vive nell’Altro?
Lo so. Lo so che è dannatamente difficile vedere “il Santo” nell’ultrà che scardina un sedile dello stadio per gettarlo in campo; lo so che di fronte ai “furbi”, ai disonesti, agli egoisti militanti, il primo sentimento è quello di ripulsa.
Eppure un modo c’è…
Ve ne parlo un’altra volta, va bene?
E, per farlo, dovrò narrare una cosa che, ancora oggi, a distanza di tanti anni, mi fa un male cane…

mercoledì 21 febbraio 2007

FRAMMENTI 2


Lasciate che vi parli ancora di Martin.
Ovviamente il suo problema non era il bere: quello era solo il sintomo del malessere che lo lacerava.
Quando ebbe la giusta età Martin fu inviato al college in cui, prima di lui, avevano studiato il padre ed il fratello maggiore, distinguendosi al punto che nel corridoio d’onore c’era una targa con i loro nomi. Pesante responsabilità, quella di calpestare le orme di famiglia quando tutti si aspettano da te che tu sia il migliore! Una sera, con un paio di amici, Martin bevve qualche birra di troppo e fu sorpreso, piuttosto brillo, dagli insegnanti, che lo sospesero ed inviarono una lettera ai suoi genitori. A quell’età una scappatella ci può stare, no? Chi non si è mai sbronzato da adolescente? Come chi? Ovviamente il papà ed il fratello maggiore di Martin! Sua madre lo chiamò al telefono per dirgli che aveva gettato il disonore sul buon nome della famiglia…
Per reazione il rendimento scolastico di Martin precipitò e, in misura inversamente proporzionale, crebbe invece la sua frequentazione dei bar.
Erano gli anni in cui gli USA s’impantanavano sempre più nella sporca guerra del Viet-Nam e, dati i non brillanti risultati nello studio, Martin ricevette la cartolina precetto: lo Zio Sam voleva mandarlo ad ammazzare i musi gialli per difendere la democrazia e la torta di mele.
Come molti suoi coetanei Martin bruciò la cartolina e, per evitare la prigione, scappò in Canada.
Questa volta sua madre lo raggiunse con una lettera che diceva, tra l’altro, “preferirei che tu fossi morto…”
Era la pecora nera della famiglia? Lo avevano etichettato? Ebbene: si sarebbe comportato in modo da non deluderli!
Cominciò a passare da una sbronza all’altra, a lasciarsi andare, a vivere come un barbone.
Poi, come in una bella favola, incontrò una ragazza italiana, in Canada per studio, e se ne innamorò perdutamente, perdutamente ricambiato.
Per lei, per il futuro con lei, per essere un uomo migliore per lei, Martin, da un giorno all’altro, cessò di bere…ed ebbero mesi di intensa, quasi commovente felicità.
Ma la vita non è una favola: lei lamentava talvolta una strana stanchezza, una pesantezza agli arti… ed il medico disse “sclerosi multipla”.
Quella giovane donna piena di vita e di gioia della vita era destinata ad una sedia a rotelle, a non poter più nemmeno sollevare la testa, a collassare lentamente, ma inesorabilmente.
Non credo esista un Inferno, ma anche se ci fosse quello che Martin provò in quel momento fu peggio.
Una sera cercò un effimero conforto nella bottiglia, per stordirsi, per non pensare, bevendo sino al punto di crollare privo di sensi.
Ed avvenne una cosa che aveva quasi dell’incredibile: per soccorrerlo, per sollevare il suo massiccio corpo, lei trovò nelle membra una forza che da tempo non aveva più.
Così cominciò un terribile gioco al massacro: Martin beveva perché, seppur inconsciamente, aveva notato che quando lei doveva prendersi cura di lui ubriaco sembrava star meglio; lei, d’altra parte, sapeva che quando stava veramente male Martin evitava di sbronzarsi per starle accanto e, quindi, iniziò a peggiorare con una rapidità che angosciava gli stessi medici.
Ognuno dei due si stava uccidendo nel tentativo di salvare l’altro…e che io sia dannato se questa non è una contorta, ma sublime forma d’amore!

Se volete ci sono molte lezioni in questa storia…
Una lezione per chi è genitore, una lezione per chi pensa troppo a sé, una lezione per chi non crede nell’amore e nella sua forza, creatrice e distruttiva…

Oh! Volete il lieto-fine? Posso solo dire che, oggi, la sclerosi multipla non si guarisce.
L’etilismo sì.

martedì 20 febbraio 2007

FRAMMENTI


Martin era un giovane Statunitense di origine irlandese.
Grosso come un armadio “quattro stagioni”, perennemente ubriaco, iroso e manesco come solo un Irlandese sbronzo sa esserlo.
Un amico lo aveva accompagnato ad uno dei miei corsi perché la bottiglia lo stava uccidendo, ma Martin era venuto solo per far piacere a lui e non aveva nessuna intenzione di collaborare: la mattina, all’apertura del corso, era già alticcio… dopo un paio d’ore navigava in un nebbioso fiume d’alcol.
Tuttavia, quando mostrai la Spada per parlare dell’aggressività, della paura, della possibilità di controllarle, era parso per la prima volta molto interessato ed aveva fatto domande finalmente lucide…
Ovviamente i bambini non erano ammessi al corso: quelli che accompagnavano dei partecipanti erano affidati alle cure di una mia collaboratrice, ma mi avevano visto entrare in sala vestito in modo strambo e con una Spada al fianco ed erano curiosi.
Così, in un intervallo dello stage, li invitai a vedere la Spada ed a maneggiarla, mentre spiegavo loro alcune cose elementari.
Era l’ora del pranzo: posai la Spada su un tavolo dietro di me e mi accinsi a salutare i ragazzi, quando vidi la mia collaboratrice, che mi stava di fronte, impallidire e farmi cenno con gli occhi di guardarmi alle spalle…
Centoventi chili di Irlandese ubriaco si muovevano con aria minacciosa verso di me, impugnando la mia affilatissima Katana con cui mi stava minacciando.

“Che succede, Martin?” domandai cercando di mantenere ferma la mia voce.

“Tu sei un falso!” – mi urlò sventolandomi la lama davanti alla faccia – “Tu hai detto che questa Spada è un simbolo sacro, per te…e poi l’hai data a quei ragazzini per giocare!”

Mossi un paio di passi decisi nella sua direzione, fermandomi solo quando la punta della Katana sfiorò la pelle della mia gola.
Dovevo alzare la testa per poterlo guardare negli occhi…

“Martin!” – gli dissi con voce bassa, ma dura – “Tu non hai capito un cazzo! Questo Kimono che indosso è un simbolo sacro, questa Spada è un simbolo sacro…
Ma niente al mondo è più sacro di quei bambini!”

Restò per un lunghissimo istante come pietrificato, la mano gli tremava e la punta della Spada mi graffiava la gola.
Poi vidi una luce di dolorosa comprensione accendersi nei suoi occhi.

“Hai ragione…” mi disse, mi consegnò la Spada e scoppiò a piangere.

Capii in quel momento che ce l’avrebbe fatta.

domenica 18 febbraio 2007

FERMARE LA LANCIA


Il post sul vecchio Maestro Mo ha innestato una discussione che trovo molto stimolante, per cui mi sento in dovere di fare una precisazione che, se volete, è anche una nuova provocazione.
Nelle lingue ideogrammatiche il termine che indica le Arti Marziali (Wu-Shu in cinese e Bujutsu in giapponese) significa, se tradotto tenendo conto di tutti i significati dei suoi ideogrammi, “l’Arte di fermare la Lancia”.
Sì, avete letto bene: non l’Arte di spezzare le ossa e neppure l’Arte di spaccare la faccia agli imbecilli, ma l’Arte di FERMARE la Lancia, ovvero, di mettere fine alla guerra.
Gli antichi Monaci Shao-Lin od i Nobili Guerrieri Erranti di Mo-Ti si allenavano per tutta la vita a combattere…per non doverlo fare mai. Bastava, infatti, che mostrassero il tatuaggio che indicava il loro rango e, quindi, il loro addestramento, perché gli eventuali avversari si convincessero che era meglio discutere con calma.
Nell’Arte giapponese della Spada s’apprendono dei “trucchi” per l’estrazione veloce della Katana: questi accorgimenti si resero necessari perché un Maestro di Spada NON estraeva mai l’arma per primo e, quindi, era sempre in ritardo.
Tuttavia, dopo che ho cercato di convincere il mio avversario al dialogo, dopo che gli ho fatto comprendere in ogni modo che voglio evitare il combattimento, non ho il diritto di lasciarlo prevalere, perché, in questo modo, s’incoraggiano la sua arroganza e la sua prepotenza… e questo non è bene neanche per lui.
Un tempo un mio Allievo mi chiese quale fosse la differenza tra, ad esempio, un Monaco Francescano ed uno dei Monaci-Guerrieri di cui gli parlavo.
“Semplice…” – risposi – “Se dai uno schiaffo ad un Francescano lui ti offre l’altra guancia e ti fa un sermone sul valore della mitezza. Se cerchi di dare uno schiaffo ad un Monaco-Guerriero, lui lo para, ti sloga un polso…e poi ti fa un sermone sul valore della mitezza…”

Da molti, molti anni non ho colpito nessuno perché in preda alla rabbia od alla sua sorella, la paura.
Mi è capitato di colpire per educare, per insegnare che, come viene detto ne “Il Corvo” … “Vittime non lo siamo tutti!”

BUON ANNO


Secondo il calendario lunare oggi comincia il nuovo anno, l'Anno del Cinghiale.
Non tenterò previsioni, non mi esibirò in buoni propositi, non trarrò auspici.
Solo un augurio ai "naviganti": che l'anno entrante vi permetta di realizzare un sogno e ve ne regali qualcuno nuovo di zecca.
Buon anno.

sabato 17 febbraio 2007


All’epoca in cui visse (oltre 500 anni prima di Cristo) il filosofo cinese Mo-Ti (anche detto Mo-Tze, ovvero il Maestro Mo) era famoso e popolare quanto Confucio. Dopo la sua morte e la lenta dispersione dei suoi discepoli, le sue opere furono messe al bando e bruciate e si tentò di cancellarne la memoria…operazione in parte riuscita, visto che Confucio, il teorico dell’Ordine e del rispetto della gerarchia, lo conoscono tutti ed il vecchio Maestro Mo, al contrario, è familiare solo a chi si occupi di filosofie orientali…
Perché tanto accanimento contro le sue idee? Intanto perché Mo-Ti riteneva che nessuno avesse diritto di regnare solo perché nasceva figlio dell’Imperatore e, soprattutto, che non era affatto detto che un contadino dovesse restare legato alla terra: se ne aveva le capacità poteva diventare un generale, un poeta, un architetto. Idee sovversive, pericolose per il potere costituito. Oltre a questo Mo-Ti predicava la sua Via dell’Amore Universale che consisteva, secondo le sue stesse parole, in questo:

"Consiste nel guardare lo Stato degli altri come se fosse il proprio, le cose degli altri come le proprie, le persone degli altri come la propria. Quando i signori feudali si ameranno l’un l’altro, non ci saranno più guerre; quando i capi delle case si ameranno l’un l’altro, non ci sarà più offesa scambievole. Quando governante e governato si ameranno l’un l’altro, essi saranno benevoli e leali; quando il padre e il figlio si ameranno l’un l’altro, saranno affezionati e filiali; quando i fratelli maggiori e quelli più giovani si ameranno l’un l’altro, ci sarà armonia tra loro. Quando tutti gli uomini del mondo si ameranno l’un l’altro, allora i forti non si imporranno ai deboli, i molti non opprimeranno i pochi, i ricchi non derideranno i poveri, gli onorati non disdegneranno gli umili, e gli astuti non inganneranno i semplici. Ed è dovuto tutto all’amore reciproco che si impedisca il sorgere delle calamità, delle lotte, delle lagnanze e dell’odio".

Perché mai idee tanto benevole e pacifiche dovrebbero far paura? Semplice: perché Mo-Ti aveva organizzato un esercito di “guerrieri-filosofi”, gli Yu Hsieh, i Nobili Guerrieri Erranti, dotati di un addestramento quasi sovrumano, di una preparazione assolutamente eccezionale per l’epoca.
Uomini di pace con una spada al fianco. Una contraddizione?
Forse non del tutto: Mo-Ti sapeva bene la fine che era riservata ai “profeti disarmati”, sapeva che a farsi agnello si finiva tra le fauci del lupo.
I suoi guerrieri e lui stesso avevano zanne robuste, ma intendevano usarle per propugnare l’ideale di un mondo di pace.

E’ una Via impervia, difficile, piena di trabocchetti e di tentazioni.
E’ una Via lungo la quale possono camminare solo persone dotate di un particolare coraggio e di una grandissima umiltà.
Ma qualcuno non ti ha dimenticato e tenta ancora di percorrerla, Maestro Mo.

D'ALTRA PARTE...


Se vuoi che venga costruita una nave,
non procurarti legna, chiodi ed attrezzi...

Insegna agli uomini a sognare il Mare.

venerdì 16 febbraio 2007

SEMINATORI


Un fiume.
Un grande fiume tumultuoso.
Noi viviamo su una delle sue sponde, affollata, chiassosa, piena di fango e rifiuti.
Accade che qualcuno, talvolta per caso, a volte perché guidato, alzi lo sguardo sulla riva opposta che, al contrario, appare serena, incontaminata, ricca di alberi maestosi ed impreziosita dal canto degli uccelli.
Allora, sfidando le correnti, con fatica e con pericolo, egli si lancia tra le acque per raggiungere quella sponda.
Alcuni ce la fanno e, da quel momento, la loro vita trascorre nella perfetta serenità e nella comprensione di ogni cosa, come se, finalmente, si fossero Risvegliati da un incubo.

Altri commettono un errore fatale: dopo che hanno speso sudore e sangue per raggiungere quella riva, dopo che hanno rischiato mille volte di annegare e più ancora d’arrendersi, si voltano a guardare la terra che hanno abbandonato e gli esseri viventi che in essa si dibattono…e provano pietà.
Così, visto che ora essi conoscono il tragitto per il guado, decidono di tornare indietro per guidare altri sulla Riva Serena…e di non riposarsi, di non godere a loro volta del Risveglio, sino a che l’ultimo degli esseri viventi non avrà compiuto il tragitto.

Alcuni li chiamano Bodhisattva, altri “Seminatori”…

E’ un duro mestiere.
Ma qualcuno deve pur farlo. :-)

mercoledì 14 febbraio 2007

E = mc²


Il mio amico Nuposz (ricordate? L’Alieno incaricato d’aggiornare la voce “Terra” sull’Enciclopedia Galattica per Autostoppisti) spesso mi fa domande imbarazzanti.
Ieri, ad esempio, mi ha chiesto quale sia la cosa che, a mio giudizio, produce i maggiori pericoli per il nostro pianeta.
Ovviamente, in un primo tempo, ho pensato a quelle cose che, probabilmente, stanno venendo in mente anche a voi: il riscaldamento globale del pianeta, l’esaurimento delle falde acquifere, l’inquinamento, la proliferazione di ordigni nucleari, lo sfruttamento forsennato di risorse non rinnovabili…
Poi mi sono fermato a riflettere qualche istante e mi è venuto da rispondergli: “la certezza”.

Pensateci per un attimo.
Mi sto convincendo che la certezza assoluta nelle proprie convinzioni, nelle proprie idee, sia stata e sia la fonte dei maggiori disastri per l’umanità e per il pianeta che l’ospita.
Ad esempio: se credo fermamente in un dio che mi ha nominato “signore del creato” sono autorizzato a sfruttare senza ritegno e senza ripensamenti la natura che mi circonda; se sono convinto che la mia razza, la mia religione, il mio sesso, la mia nazione, siano superiori, potrò infierire su chi è diverso da me senza sentirmi in colpa e, anzi, con l’orgoglio di chi adempie ad un “dovere naturale”.
Ogni guerra, ogni genocidio, ogni insulsa azione che devasta la natura, ha alle spalle una “certezza del diritto” che è autoreferente e che si alimenta da sola.
Più o meno il ragionamento è: “Posso fare quello che voglio perché è un mio diritto. Ed è un mio diritto perché io credo fermamente che lo sia!”

Chi, al contrario, si alimenta di dubbi, di solito si ferma a riflettere prima d’agire e, spesso, esita talmente che qualcuno di quelli che dubbi non ne hanno agisce al posto suo.
Se ne deduce che… mentre i saggi riflettono, gli sciocchi agiscono…e questo spiega lo stato del pianeta.

Ovviamente, però, di tutto ciò non sono affatto certo: devo rifletterci.

martedì 13 febbraio 2007

ALIENI E FORCHETTE


Due mesi or sono ho conosciuto un Extraterrestre.
E’ da secoli sul nostro pianeta, incaricato di redigere un aggiornamento sulla Terra per la relativa voce dell’Enciclopedia Galattica per Autostoppisti.
In verità l’incarico doveva durare, al più, qualche settimana, ma Nuposz (questo è il suo nome, anche se, abitualmente, si fa chiamare Mario Rossi) mi ha confessato che alcuni aspetti della nostra cultura lo lasciano ancora perplesso: questa è la ragione che lo ha spinto a confidarsi con un indigeno (il sottoscritto) nella speranza di chiarirsi le idee.
Prendiamo, ad esempio, la nostra economia…
Questa è la bozza del rapporto che Nuposz vorrebbe inviare alla redazione:

“L’ECONOMIA TERRESTRE.
Sul pianeta Terra la forma dominante di economia è denominata “capitalismo”.
Essa consiste in un sistema per il quale, ad esempio, Tizio possiede una macchina che produce (diciamo) forchette. Egli convince Caio a lavorarci e Caio, impiegando il proprio tempo e la propria fatica, realizza un tot di forchette che, però, dato che la macchina non è sua, appartengono a Tizio, che se le prende.
In cambio Tizio impresta del denaro a Caio, che glielo restituirà comprando le forchette che lui stesso ha fabbricato. Quando Caio ha tutte le forchette che gli servono Tizio apporta delle modifiche alla macchina perché sforni forchette diverse: con tre punte invece che quattro, con il manico ergonomico, con un design firmato da un noto stilista, sagomate in modo da far sembrare più giovane la mano che le impugna, ecc.
Questo sistema, che sulla Terra è ritenuto il migliore possibile, ha permesso che un terzo della popolazione spenda in prodotti per dimagrire una cifra che basterebbe a salvare dalla morte per fame i restanti due terzi dei Terrestri.
NOTA DELL’AUTORE: consiglio di rivedere la voce relativa al pianeta Terra, là dove si dice che vi si trova vita intelligente”.

Sto cercando di spiegare a Nuposz le nostre ragioni…
Ma faccio un po’ fatica.

domenica 11 febbraio 2007

DIO DELLE PIETRE


Ho creduto in te, Dio delle Pietre
incontrato sugli aspri monti di Euskadi,
nelle strade di Belfast la ribelle,
tra la polvere e le lacrime di Palestina…

Ti ho offerto sacrifici sul pavé di Parigi,
nel fango del Mekong,
sotto il rovente sole di Maputo,
nella disperazione delle favelas…

Non ho lasciato, però,
che impietrissi il mio cuore:
sa ancora sanguinare e cantare di gioia…
…anche se credo in te, Dio delle Pietre.

sabato 10 febbraio 2007

IN RICORDO...


In ricordo di Naji al-Ali, che mi manca da vent'anni.

venerdì 9 febbraio 2007

UNA STORIA CINESE


Un uomo molto colto, ma desideroso d'apprendere ancora, sentì dire che in una grotta, sulla vetta di un monte, s'era stabilito un eremita che aveva fama d'essere molto saggio.
Senza por tempo in mezzo si fece trasportare con la propria portantina ai piedi della montagna, dove, però, il sentiero si faceva troppo ripido per proseguire. Senza perdersi d'animo l'uomo continuò a piedi, tra i massi ed i rovi che stracciavano la sua bella veste di seta.
Finalmente giunse alla cima, dove un vecchio sembrava attenderlo...

"Sifu, - gli disse usando il termine che indicava un Maestro - mi dicono che hai delle cose da insegnare...ed io sono desideroso d'apprenderle!"

"Le buone maniere vogliono - rispose il vecchio - che tu prima di ogni cosa ti debba presentare. Chi sei?"

"Io - affermò l'uomo con un certo orgoglio - sono il Rettore dell'Imperiale Università di Beijin; sono il Consigliere dell'Imperatore per i Riti e le Cerimonie; sono colui che ha tradotto dal sanscrito i Sacri Sutra; sono..."

"No, no! - lo interruppe il vecchio - Questo è ciò che fai. Io ti ho chiesto... CHI SEI!"

Dopo che mi fu raccontata per la prima volta questa storia il narratore mi guardò intensamente negli occhi e, naturalmente, mi chiese a bruciapelo: "Tu chi sei?"

giovedì 8 febbraio 2007

OMAGGIO


Un omaggio alle famose "Eresie di Istanbul"...

DIALOGO

“Se proibisci all’Uomo ed alla Donna di nutrirsi con il Frutto dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male, come puoi punirli se sbagliano? Diamo loro la Consapevolezza ed essi potranno scegliere…”

“Se essi conoscessero la differenza del Bene e del Male sarebbero simili a Noi e cesserebbero di temerci ed adorarci!”

“E questo non è Bene? Non c’è, forse, maggior merito per il Creatore quando viene raggiunto dalla sua Creatura? Non è il compito del Maestro fare in modo che l’Allievo lo superi?”

“Io negherò loro questa possibilità, li lascerò nelle nebbie del dubbio e li manterrò piccoli per sembrare io più grande!”

“Dunque toccherà a me, il Portatore di Luce, offrire loro la Conoscenza e liberarli dalle catene dell’ignoranza..."”

“Racconterò loro che li hai ingannati, che hai alimentato la loro presunzione e ciò li ha privati dell’innocenza e della beatitudine dell’inconsapevolezza, condannandoli a vivere tra lacrime e sudore…”

“Sì. So che lo farai: la Storia la scrivono i vincitori ed il mio gesto d’amore sarà chiamato Tentazione. Ma qualche Essere Umano, guardando al mondo che hai generato, comprenderà la tua vera natura e si rivolgerà a me…perché altra Luce entri nella sua Vita!”

domenica 4 febbraio 2007

CATTIVI ALLIEVI?


Non per polemica, lo giuro... Ma non ci sono solo cattivi maestri: talvolta gli allievi interpretano le lezioni a modo loro. Faccio fatica a capire... Faccio fatica a capire quel mio giovane amico ligure che professa simpatie per la Destra più estrema e, nella sua città natale, ha fondato un fan club de "I Nomadi". Faccio fatica a capire quelli che, negli anni '70 o giù di lì, s'esaltavano alla lettura de "Il Signore degli Anelli", vero canto all'Anarchia come può intenderla un country gentleman inglese, e partecipavano ai "Campi Hobbit" sventolando bandiere con Svastiche e "Croci Celtiche"... Non capisco quelli che hanno simpatie per ambienti farciti di nazionalismo stantio e malcelato razzismo ed amano Corto Maltese, di cui Pratt narrò la fine nella guerra di Spagna, mentre si batteva a fianco delle Brigate Internazionali contro i Falangisti di Françisco Franco...
Mi sento vecchio. Un tempo era tutto più semplice: se ti piacevano i Nomadi ed indossavi l'eskimo eri di Sinistra... e, se eri di Destra, non leggevi Pratt, ma Jacovitti!
Il mondo si è fatto nebbioso e molti confini sono confusi.
Abbiamo bisogno di nuove definizioni...

sabato 3 febbraio 2007

STANCHEZZA


Credo sia da troppo tempo (più di quanto ami ricordare) che indosso un'armatura arrugginita e mi scaglio contro i mulini a vento.
Comincio ad essere un po' stanco...o, per dirla al modo di "Arma letale": "Sono troppo vecchio per queste stronzate!"
Insomma: l'energia residua vorrei conservarla per qualche battaglia che meriti...che so? La salvezza del pianeta, i diritti umani, la difesa degli ornitorinchi spastici... e non disperderla in litigi con un computer che ogni volta non riconosce la mia password e mi costringe a reimpostarla per accedere!
Ho di meglio da fare: tagliarmi le unghie dei piedi, mettere il cibo nel frigorifero in ordine alfabetico, capire l'essenza della teoria dei quanti o della filosofia di Mo-Tzè.
Insomma: scusate se apparirò di rado.
E buona vita a tutti.