venerdì 27 aprile 2007

LABIRINTO


Quasi a sottolineare alcune cose dette da Sethar...eccovi l'aneddoto:

Una parte, una parte importante, del mio addestramento si sarebbe conclusa quel giorno…

La “prova” da superare veniva direttamente da tempi molto lontani, dalla Tradizione di quel Monastero di Shao-Lin nel quale le Arti Marziali avevano mosso i loro primi passi sulla terra cinese.

Ero entrato nelle viscere della terra, in un buio profondo che era sottolineato, più che attutito, dalle torce che inviavano il loro bagliore esitante ogni cento passi.
In quel buio si nascondevano pericoli che avrei dovuto dimostrare di saper evitare o affrontare.
La più insidiosa delle difficoltà stava nella scelta del percorso: la galleria, periodicamente, si ripartiva in corridoi laterali e, seguendo le indicazioni che mi erano state date, io avrei dovuto “percepire con il Ventre” quale strada mi avrebbe portato alla salvezza, verso la ritrovata luce del sole, e quale, al contrario, mi avrebbe condotto a perdermi senza scampo…

Al primo bivio mi concentrai, tentando di estendere i miei sensi, respirando e cercando di cogliere un qualche “segnale”, una qualche “vibrazione” dell’Energia che mi servisse da suggerimento… Ma non “sentivo” proprio nulla!
Malgrado cercassi di mettere in atto tutto ciò che mi era stato insegnato i due corridoi che mi si aprivano di fronte m’apparivano assolutamente identici e “muti”…
Finii con l’imboccarne uno a caso, pieno di dubbi ed esitazioni.

Al bivio successivo tutto si ripropose nell’identico modo: continuavo a non ricevere nel mio spirito nessun “suggerimento” su quale fosse la via verso la salvezza! Mi immettevo a caso nel corridoio di sinistra o in quello di destra, sentendo crescere dentro di me, sempre più prepotentemente, la paura che mi stessi perdendo irrimediabilmente in quel buio labirinto…

Invece, dopo un tempo che mi sembrò interminabile, mi apparve lo spiraglio di luce che annunciava l’uscita.

Il Maestro era lì ad attendermi…

“Come è andata?” mi domandò.

“Insomma…” – risposi esitante – “…bene con le trappole e le persone in agguato… Ma c’è una cosa che devo onestamente confessarti, Maestro: sono salvo per pura fortuna! Ad ogni bivio incontrato ho dovuto scegliere a caso la strada perché, mi vergogno a dirlo, io non sono riuscito a percepire alcuna differenza! Temo che il mio addestramento in questo campo non abbia dato buoni frutti… Forse sono troppo… occidentale!”

“Non hai percepito differenze…” – rispose serio il Maestro – “perché non ve n’erano: tutti i corridoi portavano qui… L’unica cosa che avrebbe potuto ucciderti era non scegliere!”

E questo, io credo, è il primo dato: se non “scegliamo” qualcosa o qualcuno lo farà per noi.

domenica 22 aprile 2007

BANCHE, INCENDI ED ALTRE AMENITA'


Immaginiamo (non sarà certo difficile) d’essere di fronte ad una situazione che richieda, da parte nostra, la scelta di un comportamento preciso. Quanto meno ci si apriranno di fronte, quale che sia la circostanza, almeno tre possibilità: possiamo attendere, ovverosia non fare proprio nulla nella speranza che la crisi si risolva da sola; possiamo scappare, cercare, cioè, di sfuggire il problema; oppure possiamo affrontare la situazione stessa alla ricerca di una soluzione
Qual è la decisione giusta?
E’ questa una domanda che non ha alcuna possibile risposta… se non conosciamo altri dati, se non possediamo altri elementi informativi su ciò che ha generato la nostra necessità di operare una scelta!
Ognuna delle soluzioni prospettate può essere quella più corretta e, nello stesso tempo, può portare ad un disastro.
Facciamo alcuni, banalissimi, esempi…
Supponete che, essendo impiegati in qualche istituto bancario, vi accada, per una sciocca distrazione, di restare rinchiusi in una camera blindata durante il periodo della pausa per il pranzo. Affrontare la situazione, ad esempio scagliarsi con pugni e calci contro la pesante porta in acciaio, sarebbe, con bella evidenza, non solo inutile, ma anche potenzialmente pericoloso. E’ altresì evidente che ogni via di fuga vi è sostanzialmente preclusa e correre in cerchio come uno scoiattolo sulla sua ruota non vi porterà lontano. D’altra parte voi sapete che, di lì a poche ore, qualcuno dei vostri colleghi aprirà certamente la camera ridandovi la libertà ben prima che la scarsità d’aria disponibile possa arrecarvi qualche problema. Ne consegue che la scelta corretta, in questo caso, è quella di attendere, di non fare nulla, risparmiando nel contempo le proprie forze aspettando la certa soluzione della crisi che sopraggiungerà senza alcun bisogno del vostro intervento.
Se, però, invece che in una camera blindata vi trovaste imprigionati in una stanza che sta andando a fuoco è ovvio che un comportamento analogo porterebbe a conseguenze ben diverse! Di fronte alle fiamme l’attendere una loro improbabile estinzione spontanea potrebbe costarvi la vita. Anche in questo caso, nondimeno, l’irruente lanciarsi verso il fuoco per affrontarlo direttamente nella speranza di respingerlo è fortemente sconsigliato: in questa seconda situazione prospettata la fuga è senza dubbio la soluzione più idonea.
Immaginate ora che tra le stesse fiamme non ci siate voi, ma una persona che vi è cara e che, per le ragioni che preferite, non sia in grado di salvarsi da sola: attendere equivarrà a condannarla ad una morte atroce; fuggire, allontanarsi dal luogo dell’incendio, otterrà lo stesso drammatico risultato: nella presente circostanza dovrete vincere paure e reticenze e affrontare con decisione la fiammeggiante difficoltà che vi si è parata di fronte!

Purtroppo nella nostra vita di ogni giorno le difficoltà non sempre si presentano con una caratteristica ben precisa e tale da consentire una loro immediata classificazione: a volte la “camera blindata” si traveste da “incendio” o, per lo meno, in questo modo appare ai nostri occhi…
Così succede a tutti, con una frequenza indesiderabile, di agire tempestivamente quando sarebbe opportuno fermarsi a riflettere, di tentare di sfuggire situazioni che andrebbero piuttosto affrontate prima di peggiorare e diventare irrisolvibili o, quanto meno, assai più intricate, di temporeggiare dubbiosi, invece di correre ai ripari.

Possiamo sperare di apprendere a individuare con ragionevole certezza la cosa giusta da fare in ogni circostanza che richieda una scelta?
Se è vero (come io credo) che le risposte giacciono nel nostro spirito, sì…ed il racconto di un altro dei miei famigerati aneddoti chiarirà parte del mio pensiero…nella prossima puntata.

giovedì 19 aprile 2007

IL GIORNO DELLA VITTORIA


Scusate la logorrea, ma non riesco a dire questa cosa con meno parole. Diciamo che è una storia che…mi ha raccontato un amico, ok?

All’epoca mi facevo chiamare Aldo Bergonzoni e viaggiavo con un passaporto svizzero.
Qualche volta rispondevo al nome di Laszlo Kovacs ed il passaporto diventava ungherese.
Questo perché, molto spesso, dovevo lasciare di soppiatto il Paese in cui mi trovavo al momento, evitando per quanto possibile gli sguardi sospettosi dei militari dall’aria dura che occupavano l’aeroporto di turno.
Era accaduto già un discreto numero di volte: si fa l’abitudine a tutto, anche alla paura.

Quella volta, però, era tutto diverso: all’aereo mi accompagnava un corteo di gente festante, bambini mi offrivano fiori e belle ragazze mi stampavano sonori baci sulle guance. Una cosa mai vista: per la prima volta mi trovavo dalla parte di chi aveva vinto.
Ero talmente abituato a stare con gli sconfitti che mi sentivo a disagio, non sapevo bene come comportarmi…

E poi lo vidi.
Era confuso nella ressa di persone che si affollavano ai banchi del check-in.
S’era tagliato i baffi e portava grandi occhiali da sole… ma avrei riconosciuto la sua faccia in ogni modo: avevo studiato la sua fotografia per mesi, me l’ero attaccata sul frigorifero per vederla ogni mattina, appena alzato.
Ora le parti erano invertite: era lui che cercava di passare inosservato, che fuggiva come un ladro nella notte, mascherato con una orrenda camicia hawaiana ed un paio di bermuda ridicoli.

Mi bastava un gesto, un cenno del capo, un puntare l’indice…ed i giovanotti sorridenti che mi scortavano dandomi pacche sulle spalle avrebbero cambiato espressione e sfilato dalla spalla il loro kalashnikov.
Anche lui mi vide e mi riconobbe: probabilmente aveva a sua volta una mia foto, non sul frigorifero, immagino, ma in un dossier che teneva sulla sua ordinata scrivania, nel suo ufficio di “consulente militare per la raccolta d’informazioni”.

Questo, ufficialmente, era stato il suo titolo e, verosimilmente, lui pensava a se stesso definendosi “soldato di ventura”.
Per me era solo un mercenario esperto in torture, il responsabile della morte, spesso orrenda, di tante persone che mi erano amiche, di tante altre di cui avrei potuto essere amico.
Stavo per farlo. Stavo per dire: “Busca aquèl hombre!” … ma qualcosa d’indefinito, ma potente, mi fermò.

C’imbarcammo entrambi: era la prima volta che volavo su un aereo di lusso di quelle dimensioni e guardavo sbalordito la scala che saliva al piano superiore, i salottini, tutto quello spazio a disposizione! Quando ci permisero di slacciare le cinture di sicurezza salii al bar.
Era seduto su uno degli sgabelli al bancone e sorseggiava un “bloody mary”. Mi accomodai sul sedile accanto, senza parlare, ed ordinai un’acqua tonica con un po’ di gin.
Bevemmo in silenzio per un po’, poi, senza guardarmi ma tenendo lo sguardo fisso nel bicchiere, mi domandò a bassa voce: “Perché?”
Non c’era bisogno di spiegazioni. Sapevo cosa voleva dire: “Perché mi hai salvato la vita? Perché, tu che sei un mio nemico, non mi hai denunciato?”

Fui costretto a domandarmelo anch’io…

“Non lo so” – risposi con sincerità – “Forse perché ho già visto troppa morte. Forse perché non voglio diventare come te. Dimmelo tu, piuttosto, perché fai questo sporco lavoro? Ti piace giocare all’eroe?!”

Eroe?!” – parlava sempre a bassa voce, ma le parole gli uscivano di bocca come sputi – “Cosa ne sai, tu, degli eroi?! Ora ti spiego io, come nasce un eroe… Ti scegli una guerra perché credi sia quella giusta, perché vuoi difendere le cose in cui credi… Cose che per te non hanno significato, immagino, le cose che producono una società ordinata e pulita! Ti scegli una guerra per fermare quelli che vogliono distruggere le cose in cui ti hanno insegnato a credere. E non è mai come ti aspetti, è sempre tutto più sordido e sporco… ma è il mio lavoro ed è quello che so fare. Poi, un giorno, durante una normale operazione di ricognizione in un buco di culo di paese di cui non sai neppure il nome, cadi in un’imboscata: ti sparano addosso e non vedi neanche il nemico. Allora ti scavi una buca nel fango, ti attacchi alla radio e chiedi l’intervento degli elicotteri, ma qualche burocrate imboscato la tira per le lunghe ed è restio a sprecare tutta quella preziosa benzina per dei mercenari stranieri. Così resisti perché non puoi fare altro, perché non puoi nemmeno arrenderti: sei un mercenario, non c’è nessuna Convenzione di Ginevra che ti protegge e poi, magari, tra quelli che ti sparano addosso c’è qualcuno che aveva parenti nel villaggio che hai bruciato il giorno prima… e sai che non avrà pietà. Resisti, rispondendo al fuoco sino a che hai munizioni, con il coraggio di chi non ha nessuna altra fottuta scelta. Poi ti capita di sporgerti troppo dal tuo buco nel fango… ed un ragazzotto foruncoloso che imbraccia un fucile più alto di lui ti becca nel ventre. E’ così che diventi un eroe, mentre crepi lentamente, vomitando sangue, in un Paese di cui, in realtà, non t’importa un cazzo. Fottiti, tu e le tue menate sugli eroi!”

“Fottiti tu…” – risposi – “Se sei tanto… disincantato, perché diavolo continui a fare questo mestiere da macellaio?”

Si voltò a guardarmi in faccia, prima di rispondere: “Te lo detto: perché è l’unica cosa che so fare…”

Mi strinsi nelle spalle. “La vita è tua…” – replicai – “Ognuno sceglie come vivere e, se è fortunato, come morire. Per quello che mi riguarda sono contento di non essermi accollato il peso della tua morte: anche se faccio fatica, anche se certo non piangerò quando ti faranno la pelle, sto cercando di non diventare ciò che combatto. Anch’io ho cose in cui credo e sono disposto a morire e persino ad uccidere, se non posso farne a meno, per difenderle. Ma la vendetta la lascio a quelli come te: non voglio portarmela nel mondo nuovo che sogno. Altrimenti, in qualche modo, saresti tu quello che ha vinto. In ogni caso… mi devi una vita. Ricordatelo, se hai onore, quando, nella prossima guerra che sceglierai, t’imbatterai in uno come me…”

Non l’ho più incontrato, ma ho trovato sei anni dopo il suo nome su un trafiletto della rivista americana “Soldiers of Fortune”: era l’elenco degli “eroici combattenti” caduti in un’oscura guerra, in un poverissimo Paese africano di cui, probabilmente, non gli importava un cazzo.

Credo che il non aver puntato quel dito sia stata una delle migliori cose che ho fatto nella mia vita.
Ed una delle più difficili.

mercoledì 18 aprile 2007

RESPONSABILITA' UNO


Che ne dite, per alleggerire, di una sorta di recensione cinematografica?

E’ un vecchio film e, se non lo avete visto, vi consiglio di noleggiare il DVD e dedicargli una serata. Se, al contrario, lo conoscete, spero comunque non vi dispiacerà se ne commento una parte, quella che, per così dire, costituisce l’antefatto della vicenda.

Sto parlando de “La Leggenda del Re Pescatore”, di Terry Gilliam, con un magnifico Robin Williams, un Jeff Bridge in una delle interpretazioni più sofferte della sua carriera e la splendida Mercedes Ruehl che, seppure in una parte marginale, dona vita ad uno dei personaggi femminili più umani ed intensi della cinematografia hollywoodiana.

Jeff Bridge interpreta Jack Lucas, un DJ che ha fatto del cinismo e della satira violenta il suo marchio di fabbrica e che ottiene un notevole successo di pubblico proprio grazie alla sua ironia graffiante, alle provocazioni, al disprezzo ostentato nei confronti delle persone mediocri e di una società ipocrita.
Una sera se la prende con gli “Yuppie” tutta immagine e poca sostanza che affollano i ristoranti alla moda, i posti in cui “bisogna farsi vedere”, e, ad una telefonata in diretta di un ascoltatore che si associa alle sue accese parole di scherno, risponde qualcosa tipo:
“Hai ragione, amico! Bisognerebbe prendere un fucile e sparare nel mucchio!”

Quello che non sa è che dall’altra parte della cornetta c’è uno psicopatico che lo ha eletto a suo personale “guru” e che è pronto a bere le sue parole ed a trasformarle in gesti.
D’altra parte gli Statunitensi, si sa, quando c’è da sparare nel mucchio non sono secondi a nessuno, come la recente cronaca ci ha ricordato.

Così, quella sera, Parry (Robin Williams), un professore universitario di storia medioevale, mentre cena con l’adorata moglie per festeggiare il loro anniversario di matrimonio, vede improvvisamente la testa della donna esplodere e si ritrova con il viso imbrattato dal suo sangue e dai brandelli del suo cervello…

Da qui si sviluppa una storia ricca di spunti poetici e capace di stimolare profonde riflessioni sul senso di colpa e sui modi per “chiudere i cerchi” del nostro passato.

Quello che mi preme in questo contesto, però, è indurvi ad un attimo di considerazione su un punto specifico: siamo sempre consapevoli dell’effetto che le nostre parole o le nostre azioni hanno sugli altri? Ci capita mai che una frase sconsiderata, sfuggita magari in un momento di rabbia o, peggio, detta solo per farci notare, per recitare un personaggio, finisca con l’avere effetti che non avremmo desiderato?

Certo: a nessuno di voi, ringraziando tutte le divinità possibili, sarà mai successo di causare un vero dramma… ma i “piccoli drammi”, quelli senza sangue che scorre e crani fracassati da pallettoni da cinghiale, molto, molto spesso, fanno altrettanto male.

Il fatto che il sangue non si veda non significa che, in qualche modo, non sia stato versato.

Che ci piaccia o no, che ci si voglia credere o meno, siamo responsabili di ciò che seminiamo.
E il Karma, un giorno, ci presenterà il conto.

lunedì 16 aprile 2007

IL LIMITE


All’epoca in cui i corsi ai quali collaboravo si svolgevano in quel di Como arrivò un terzetto di personaggi che provenivano dal Veneto: figlio, padre e la giovane compagna di quest’ultimo. Il padre, un uomo sui 45 anni, era il classico Veneto di montagna, alto, con lunghi capelli biondi raccolti a coda di cavallo, due spalle da rugbista avvolte da una camicia scozzese; il figlio sembrava la sua fotocopia di vent’anni prima e si notavano subito l’affetto e la complicità che li legavano. La donna aveva, più o meno, l’età del figlio… ma questo non costituiva un problema per nessuno, anzi: il ragazzo adorava questa donna che aveva riportato felicità ed amore nella vita di suo padre.
Sembravano non avere un solo problema al mondo… eppure erano lì, a fare un corso al quale, di solito, si presentavano persone con problematiche anche pesanti. Alle mie domande si limitavano a rispondere d’essere venuti “per curiosità”. In quel tempo (dato che non decidevo io la politica economica del Centro) i corsi erano decisamente costosi e mi sembrava perlomeno strano che quei tre spendessero qualcosa come dieci milioni delle vecchie lire per togliersi una curiosità! Sentivo che sotto c’era qualcos’altro, ma mi trovavo la strada sbarrata da un muro d’omertà. Più tentavo di indurli ad aprirsi, più padre e figlio si serravano a difesa e, data la mia insistenza, cominciarono ad odiarmi. Nei giorni del corso me ne dissero di tutti i colori ed arrivarono anche a minacciarmi fisicamente.
Poi, alla compagna del padre, saltarono i nervi. Chiese di parlarmi in privato e per prima cosa mi fece giurare che non avrei assolutamente rivelato che mi aveva parlato, né che avrei usato quanto stava per dirmi perché i “suoi due uomini” non volevano e non glielo avrebbero perdonato. Piangendo disperata mi rivelò che il figlio, quel giovanottone di 24 anni, aitante e sportivo, era ammalato di sclerosi multipla e, nel giro di pochi anni, si sarebbe ridotto su una sedia a rotelle. Padre e figlio erano distrutti dentro, ma decisi a negare l’evidenza, a fingere che il problema non esistesse e, soprattutto, a non chiedere aiuto: erano persone forti, abituate ad affrontare ogni cosa con le sole loro capacità e non si sarebbero mai “abbassati” ad “esibire” il loro dolore in pubblico!
Ero veramente in un guaio! Ora ero ancor più motivato nel far qualcosa per dare il mio aiuto a quelle persone, ma, nello stesso tempo, ero impotente, legato dalla promessa fatta. Tentai nei modi più insinuanti d’indurre loro a confidarsi…ed ottenni l’effetto opposto: più arrivavo a toccare la loro emotività, più li spingevo quasi sul punto di aprirsi, più i due s’infuriavano con me, come se cercassi di violentarli, di costringerli a mostrare una debolezza. Sino al punto in cui il padre arrivò ad insultarmi pesantemente, facendo anche il gesto di sputarmi in faccia.
Intanto il corso proseguiva ed io mi adoperavo, ovviamente, anche per le altre persone presenti e, come sempre accade in quelle circostanze, si sparsero lacrime, si cucirono ferite, si tese, tutti insieme, una mano a “bambini” spaventati…
Avvenne così che la domenica mattina, a poche ore dalla conclusione del corso, mentre mi ero preso una pausa e mi ero rifugiato in un corridoio per dedicarmi al mio secondo vizio preferito (il tabacco…non fatevi idee strane) il padre mi avvicinò con una strana luce negli occhi. Per un attimo pensai che volesse aggredirmi davvero e stavo decidendo quale atteggiamento mantenere (“mmmm…scappo in aula o gli slogo un polso?) quando, invece, mi sorprese. Non riusciva a guardarmi negli occhi e la sua voce usciva quasi come un borbottio, ma quello che disse fu, più o meno:

“Ti ho guardato lavorare in questi giorni. Ho visto cosa hai fatto per quelle persone e quanto ti sei speso. Ora ho capito cosa stavi cercando di fare per noi…ed io ti ho offeso e insultato. Volevo solo chiederti scusa…”
Ecco: era il momento per aiutarlo a sciogliere il ghiaccio che gli serrava il cuore.

“Vedi, amico mio…” – gli risposi – “normalmente, nella vita di tutti i giorni, se vedi uno che sta per cadere, gli tendi un braccio per reggersi e lui, invece di ringraziarti, ti sputa in un occhio, ti limiti a pensare “che razza di stronzo!”. Questo, invece, è un posto dove se chi stai tentando di aiutare ti sputa addosso ti viene da pensare: “Quanto deve soffrire per essere così difeso!” Per cui non c’è niente da scusare: vorrei solo che tu e tuo figlio mi permetteste di fare il mio lavoro…perché sin dall’inizio ho visto la pena che vi portate dentro e vorrei dividerne con voi il peso…”

Mettiamocelo bene in testa, se possibile: nel 99% dei casi chi ci aggredisce si sta solo difendendo, sta solo palesando la sua paura, sicuramente in modo distorto, sicuramente facendoci del male…ma sta chiedendo aiuto. Se siamo in grado di capire questo messaggio e siamo abbastanza “forti” da poter affrontare la situazione sino a rassicurarlo in modo che cessi di aggredire…ottimo!
In caso contrario dobbiamo abbandonare la situazione, allontanarci prima che la sua insicurezza ci contagi ed induca anche noi allo stesso gioco perverso.
Una volta mi è accaduto di continuare a camminare a braccia spalancate verso una persona che mi lanciava manciate di ghiaia in faccia… altre volte mi sono arreso ed ho pregato chi non intendeva comprendere i miei messaggi di pacificazione di portare altrove le sue violente manifestazioni di paura.
Come sempre il problema è trovare la giusta misura…
La vostra qual è?

giovedì 12 aprile 2007

LA COSA PIU' SAGGIA...


Proviamo con un post brevissimo... per stimolare la riflessione.

Ann Landers ha scritto: "La cosa più saggia che può fare chi esce vittorioso da una discussione... è chiedere scusa".

Cosa ne pensate?


mercoledì 11 aprile 2007

UN ALTRO ESEMPIO ?


Colgo l'attimo in cui la connessione pare reggere... Questi post vogliono essere pezzetti di mosaico: metteteli da parte. Il disegno si svilupperà col tempo...

Approfondendo quanto si diceva nel precedente post occorre domandarsi: “Ma com’è possibile vincere in due quando si è in conflitto?”
Ci sono, in realtà, tanti modi: uno di essi si verifica quando la priorità per i due contendenti non è esattamente la stessa, malgrado le apparenze.
Facciamo un altro “esempio storico”…

Il miliardario americano Andrew Carnegie (quello della Carnegie Hall di New York, per intenderci) nella seconda metà dell’800 era fortemente interessato ad ottenere l’appalto dei vagoni-letto della Union Railroad.
In questa sua ambizione era duramente contrastato da un altro magnate che mirava allo stesso scopo. Tra i due scoppiò una lotta senza quartiere che li portò a proporre entrambi di lavorare sotto costo pur d’ottenere la concessione.
Era chiaro, quindi, che il denaro contava solo relativamente. Carnegie sapeva cosa interessava a lui: ottenere quell’appalto significava entrare pesantemente nell’industria dei trasporti e porre le basi per un piano di sviluppo ben più ampio e che lui aveva bene in mente, ma non sapeva quale fosse, invece, l’interesse del suo avversario.
Per scoprirlo, in un’occasione nella quale erano entrambi a New York per presentare le proprie offerte, fece in modo di venire a sapere in quale hotel risiedesse il suo antagonista e di incontralo “per caso” nella hall dell’albergo.

“Facendoci la guerra” – gli disse allora – “finiremo per rovinarci. Non sarebbe meglio fondare una società insieme e presentare un’unica offerta?”

“E come avrebbe intenzione di chiamare questa nuova società?” gli domandò l’interpellato.

Carnegie, a questo punto, intuì quale fosse la priorità dell’altro: mentre lui mirava a guadagnare denaro imponendo una sorta di monopolio sul trasporto delle persone a lunga distanza, il suo avversario sembrava fortemente interessato ad una “questione di immagine”… al punto da porre per prima quella domanda, invece, ad esempio, d’informarsi su chi sarebbe stato l’azionista di maggioranza. Così, come se fosse la cosa più naturale del mondo, rispose: “Pensavo, visto che io avrò il controllo del pacchetto di maggioranza, di compensarla dando il suo nome alla società…”

L’accordo fu raggiunto, Carnegie “vinse” perché ottenne ciò che voleva sul piano economico… e l’altro magnate “vinse” a sua volta perché ciò che voleva veramente era che il suo nome passasse alla storia: non solo la società si chiamò come lui, le nuove carrozze-letto presero il suo nome e lo stesso fu poi esteso alle grandi corriere su ruote gommate che iniziarono ad attraversare gli Stati Uniti da costa a costa…e, ancora oggi, quel nome è sulla bocca di tutti, è diventato immortale.

Quell’uomo si chiamava Pullman.

Se scoprite cosa vuole veramente chi si mette in competizione con voi, probabilmente troverete anche il modo per “vincere in due”, “fermare la lancia” e trasformare una contesa in un’occasione per entrambi.





domenica 8 aprile 2007

IL MIO E' MEGLIO DEL TUO !


Ho cantato vittoria troppo presto: i problemi informatici continuano ed il collegamento in Rete va e viene. Vabbé: quando viene io ci provo. Scusate eventuali altri ritardi: non dipendono da me. Nel frattempo...

Bene. Da dove ripartire, dunque?
Magari da una banale considerazione che, poi, tanto banale non è: il 120 per cento delle questioni che angustiano la nostra esistenza, degli stati d’animo che c’impediscono di vivere sereni, nasce da problemi di rapporto con gli altri.

Perché ho scritto 120 per cento? Semplice: perché dai rapporti con gli altri scaturiscono la totalità dei nostri problemi reali… più una buona percentuale di quelli che esistono solo nella nostra mente.
Migliorare la nostra capacità di “animali sociali”, affinare le nostre doti di “comunicatori”, imparare a confrontarsi con gli altri in modo più produttivo, sono gli ingredienti per un sostanziale miglioramento della nostra vita

Da cosa nasce, in realtà, il problema? Da molti fattori… ma, oggi, ne vorrei esaminare uno solo, prendendo in prestito le simpatiche “categorie” inventate (per così dire) da Germano Squinzi, un geniale reinterprete della classica Analisi Transazionale…

Il più delle volte, quando ci misuriamo con qualcuno (praticamente sempre, insomma, se non siamo degli eremiti) ci mettiamo inconsciamente a giocare a “il mio è meglio del tuo!”
Ovvero: le mie idee sono migliori delle tue, il mio sesso, la mia nazione, la mia religione e via dicendo, sono… “cose più giuste” o, addirittura, le uniche giuste!
Questo vale per le faccende più futili (il tubetto del dentifricio si schiaccia dal fondo e non da metà come fai tu!) sino a quelle veramente drammatiche (la nostra è una razza superiore!).
A questo gioco, inevitabilmente, c’è chi vince e chi perde… ma il perdente si vede praticamente costretto (psicologicamente costretto) ad iniziare un gioco nuovo che (sempre nella pittoresca definizione dello Squinzi) si chiama: “t’ho beccato, figlio di puttana!”
In altre parole inizia ad operare per costruire la propria rivincita, per cogliere in fallo chi lo ha umiliato e rendergli pan per focaccia.
Qualora ci riesca, ovviamente i ruoli s’invertono ed è il turno dell’ex vincitore, ora sconfitto, di mettersi in agguato in attesa di una nuova occasione di riscatto, in una guerra infinita che può solo produrre rabbia e dolore per entrambi.

Si può far qualcosa per evitare d’entrare in questo buio tunnel a spirale?
Voi che dite? Se pensassi che non c’è soluzione… cosa scriverei a fare? :-)

Il rimedio consiste semplicemente in questo: uno dei due (come sempre il più “forte”, il più sicuro) deve cambiare gioco, deve mettersi a giocare al “gioco dove si vince in due”

Credetemi: in OGNI situazione, per complessa che sia, esiste la possibilità di un “pensiero trasversale” che ci faccia uscire dalla logica aberrante del conflitto e dalle sue conseguenze. Qualche volta non è facile da individuare, lo ammetto; qualche volta si maschera con molta abilità… ma esiste sempre un modo per uscire entrambi vincitori…
Per ora farò un solo esempio, più avanti ne vedremo altri, se sarà il caso.

Bob Hoover era un pilota acrobatico. Un giorno partecipò a San Diego ad una manifestazione nella quale si esibivano sia dei jet, come il suo F51, sia aerei storici ad elica. Aveva appena iniziato le sue evoluzioni quando entrambi i suoi motori si spensero. Bob comprese che poteva esistere una sola causa capace di bloccare contemporaneamente i due reattori: l’addetto al rifornimento a terra aveva messo nel suo serbatoio benzina avio, adatta agli aerei ad elica, anziché il kerosene per i jet!
Non aveva, però, tempo per meditarci troppo sopra: l’aereo stava precipitando e rischiava di cadere sul numeroso pubblico che assisteva alla manifestazione! Con molto sangue freddo e ricorrendo a tutta la sua abilità di pilota Bob Hoover riuscì a controllare la planata, a passare pochi metri sulla testa della gente ed a compiere un miracoloso atterraggio di fortuna in una zona non distante, ma deserta.

Ora immaginatevi la situazione: lui scende dalla carlinga, tremante e con l’adrenalina a mille… e si vede venire incontro proprio l’addetto al rifornimento che si è reso conto del drammatico errore commesso e che procede verso di lui come se andasse al patibolo, certo di prendersi quanto meno una sfuriata epocale, se non un cazzotto sul naso, e sicuro che la sua distrazione, che poteva causare una strage e la morte dello stesso Bob, gli costerà il posto di lavoro.
Ma Bob Hoover ha fatto certi percorsi e, anche se in questo confronto potrebbe vincere a redini basse, prima di scagliarsi contro di lui si ferma, respira, riflette e si domanda: "Esiste un modo per vincere in due?”
Così, quando il meccanico gli arriva di fronte con le orecchie basse, gli mette un braccio attorno alle spalle e gli dice, più o meno:
“Ok, amico. Hai fatto una gran bella cazzata! Tanto grande che sono certo che a te non capiterà mai più. Per questo voglio che, d’ora in avanti, sia sempre tu a far rifornimento al mio aereo!”
Quel gesto di Hoover fece il giro di tutti gli aeroporti degli Stati Uniti, suscitando l’ammirazione dei meccanici, ed il suo aereo divenne il più controllato e coccolato della storia dell’aviazione americana.
Avevano vinto entrambi qualcosa e, detto per inciso, divennero anche grandi amici.

Si può fare: la prossima volta che state per iniziare una discussione o, peggio, una lite provate a domandarvi: “Che posso fare perché si riesca a vincere in due?”

giovedì 5 aprile 2007

COME STAVO DICENDO...


Che dire? Sul centinaio di commenti che si sono affastellati su "L'Arpa e la Spada" durante la mia assenza ci sarebbe da parlare per mesi... Inoltre c'è stata la "presentazione" a Milano e la conoscenza diretta con alcuni di voi... Troppa carne al fuoco! Credo che (sempre che la Maledizione del Computer Pazzo non colpisca ancora) sia preferibile riprendere il nostro sentiero, nel corso del quale credo troveranno risposta almeno alcuni degli interrogativi che vi siete (ci siamo) posti in questo periodo di mia latitanza. Per il momento solo alcuni complimenti ed alcuni ringraziamenti...
Complimenti a tutti voi per gli argomenti che avete affrontato e, soprattutto, per il tono rispettoso delle diversità con cui lo avete fatto. I ringraziamenti vanno ugualmente a tutti per aver tenuto vivo il blog, ma mi sento di rivolgerne di particolari a Sethar ed all'Abietto per l'impegno che hanno profuso. Come si sarà capito Sethar, dopo aver avuto la sfortuna d'incontrarmi sulla sua strada, è divenuto mio collaboratore e da molti anni mi affianca preziosamente nei nostri corsi... In quanto all'Abietto... si può dire senza tema di smentita che lo conosco da quando è nato :-)
Così...punto e a capo: appena mi riesce riparto con le mie storielle e vedremo cosa ne viene fuori.
Agli amici "non-lombardi" che si sono lamentati per essere stati tagliati fuori dalla possibilità di presenziare alla "presentazione" posso solo dire: e che problema c'è? Mettete insieme un gruppetto, trovatemi una sala ed io vengo ad incontrarvi a Roma, a Trieste o, magari, a Roccapipizzopassero di Sopra.
Nel frattempo faccio festa per poter tornare a scrivere: via con i fuochi d'artificio!

ANCORA UN PO' DI PAZIENZA

Dopo il gentile omaggio di un PC usato, l'intervento di un amico informatico e una discreta dose di imprecazioni in 6 lingue diverse... e, visto che ci sono ancora problemi, ho convocato un esorcista.
Ergo: magari tra un giorno o due riesco a tornare operativo. Per il momento grazie a tutti quelli che hanno continuato a frequentare ed animare il blog. Incrociate le dita, eh? Namasté