giovedì 19 luglio 2007

VERSO ULAN BATOR


Lasciate che pubblichi questo brano senza soverchie spiegazioni.
Quelle, semmai, verranno in seguito, se e quando sarà il caso…


Attorno a Ulan Bator si apre un’aridità completa, infinita, simile al deserto di Atacama, in Cile, interrotta soltanto da gruppi di cammelli che rendono più arcaica la solitudine.

Naturalmente ho assaggiato in tazze d’argento, straordinariamente lavorate, il whisky dei mongoli.
Ogni popolo fa il suo alcol da quello che può.
Questo era di latte di cammello fermentato.
Ho ancora dei brividi quando penso al suo sapore.

Però che bello essere stato ad Ulan Bator!

Soprattutto per me che vivo nei bei nomi.
Vivo in essi come in dimore di sogno che mi siano state assegnate.
Così ho vissuto quello di Samarcanda.

Quando muoio voglio essere sepolto in un nome, in un nome sonoro ben scelto, affinché le sue sillabe cantino sulle mie ossa, vicino al mare.

19 LUGLIO


Senza parole

mercoledì 18 luglio 2007

GROTTE, SCIOCCHI E RIFLESSIONI...


PREMESSA: alcuni dei miei lettori più distratti o, per così dire, dell’ultima ora, non si sono probabilmente resi conto di un piccolo, ma importante dettaglio… E’ da sempre che questo blog utilizza il racconto di frammenti di vita vissuta per far passare l’occasione di un momento di riflessione su alcuni aspetti dell’umana condizione.
E’ stato così quando si parlò del giovane Statunitense alcolista, della ragazza fiorentina figlia di una madre suicida, del popolo dei Bisnoj o dei mille altri incontri che la mia vita ed il mio mestiere mi hanno permesso.

Questo “partire dagli episodi” per arrivare al “pensiero” è parte integrante di quella maieutica in cui, personalmente, credo con assoluta fermezza: in ogni racconto (che parli dei miei stage o dei miei viaggi) si cela, a volerlo trovare, un piccolo frammento di messaggio, un modesto motivo per porsi delle domande.

La maieutica, tuttavia, ha un apparente limite: è un sistema inadatto ai presuntuosi ed ai pigri di mente, per cui:

AVVERTENZA: IL BRANO SEGUENTE CONTIENE RICORDI PERSONALI ESPRESSI IN FORMA NARRATIVA ESPLICITA E SENZA VELI.
COLORO CHE PENSANO DI POTERNE ESSERE TURBATI O CHE NON NUTRONO INTERESSE PER L’ARGOMENTO SONO PREGATI D’ASTENERSI DALLA LETTURA.
COLORO CHE, NONOSTANTE L’AVVERTIMENTO, INTENDONO PROSEGUIRE OPERANO UNA LIBERA SCELTA E, QUINDI, SONO CALDAMENTI INVITATI, DOPO, A NON ROMPERE I MARRONI. :-)


Sedevamo sulla solita veranda.
Estella aveva appena attraversato il pueblo, diretta a casa dall’ufficio postale in cui lavorava, e, come tutti i giorni a quell’ora, il villaggio s’era fermato per pochi secondi per un doveroso omaggio alla sensuale grazia della sua camminata…
Come accadeva spesso stavo cercando di convincere Vicente ad aiutarmi a scoprire cosa si nascondesse nel fondo di una bottiglia di Avana Club imbottigliato quando a Cuba dominavano ancora il generale Batista e la sua banda di tagliagole.

“Non sei un buon Cubano!” – gli dicevo – “Non sostieni l’economia nazionale! Non fumi sigari, non bevi rum… dovrei denunciarti alla Milicia!”

“Al diavolo!” – rispondeva invariabilmente – “Sei tu quello che si deve rovinare il fegato per il bene della Rivoluzione: tu che paghi in dollari! Io me lo posso risparmiare…”

“Bueno, amigo…” – insistevo – “…allora mi sei debitore: raccontami una storia!”

“Questa la tenevo in serbo… Non potevo narrartela sino a quando non avessi visto la grotta…”

Quella in cui ci siamo immersi questa mattina?”

“Proprio quella… Sino a dieci anni or sono non aveva un nome: qui la chiamavano, semplicemente, “La Cueva”, la caverna… Poi c’è stata l’occasione per battezzarla in modo diverso…

Tutto ha avuto inizio quando è arrivato quel Tedesco…

Aveva l’età giusta per essere cresciuto sentendosi ripetere che apparteneva ad una razza superiore… e doveva aver finito con il crederci!

Era la persona più arrogante ed indisponente che abbia mai conosciuto! Niente gli andava mai bene: la barca era sporca, le strade polverose, la birra troppo calda, il suo bungalow troppo esposto al sole…
E, naturalmente, era colpa di noi Cubani, gente indolente, scansafatiche, privi d’iniziativa e capaci solo di ballare!”


“Perché non l’hai semplicemente mandato all’inferno?”

Per la stessa ragione che non mando all’inferno te ed il tuo dannato squalo bianco, Italiano loco: pagate in dollari!” – sorrise , per poi riprendere il discorso – “Comunque: arriva il giorno che decido di portarlo a visitare la Cueva, convinto che, questa volta, non avrebbe trovato nulla di che lamentarsi…”

“Ci credo!” – lo interruppi – “E’ un’immersione splendida! Solo il nuotare in mezzo a quella nuvola di Glass Fish che stazionano all’ingresso vale il viaggio… E, poi, la meraviglia delle Gorgonie di tutti i colori, di quell’enorme Corallo Cervello… Non mi dire che non è rimasto soddisfatto, eh?!”

Aspetta… Dato che sapevo che non amava avere gente intorno quando esplorava i fondali me lo sono lasciato indietro di qualche metro e sono andato ad aspettarlo sull’uscita, in mezzo ad un banco di Platax che s’impigrivano in un refolo di corrente.
Hai presente l’uscita, vero? Si spalanca sul soffitto della caverna: un’ampia e comoda apertura che sfocia nel profondo blu del mare aperto…

Di lì ad un minuto lo vedo arrivare sotto di me, torcia elettrica puntata sul fondo ad illuminare un folto gruppo di Anemoni di Mare, ognuno con il suo buffo Pesce Pagliaccio di guardia.
Non guarda in alto, ma va deciso verso l’estremità della grotta che si chiude ad imbuto…e si ferma perplesso, guardandosi intorno, ma senza mai alzare lo sguardo verso il punto in cui io galleggio tranquillamente su di lui.

Stavo per richiamare la sua attenzione battendo il manico del coltello sul metallo della bombola quando noto che ha iniziato uno strano armeggio con le cinghie del suo giubbetto equalizzatore…


Ora: forse non l’hai notato ‘stamattina, ma nel punto più basso e stretto della grotta si apre una seconda uscita, per così dire… Ma, ovviamente, nessuno la considera mai, perché è una fessura molto stretta e disagevole, troppo piccola perché un sub con sulla schiena la bombola ci passi… e, per di più, proprio al di sopra, si schiude la ben più agevole spaccatura nel soffitto…

Il Tedesco, però, continua a tenere la maschera ben puntata verso il basso e noto che ha iniziato a sfilarsi dalle spalle le bombole.

A questo punto ero troppo curioso di vedere cosa avrebbe combinato per intervenire…


Si toglie tutto di dosso, mantenendo solo l’erogatore in bocca, infila, con estrema fatica, le bombole nel buco e, poi, strizzandosi come una murena e raschiandosi il corpo contro la roccia ed i coralli, ci si insinua lui stesso, riuscendo, in qualche modo, a riguadagnare l’acqua aperta.

Qui, con calma, torna ad indossare il jacket e le bombole e, finalmente, alza gli occhi e mi vede galleggiare a pochi metri da lui.


Risaliamo in barca e, mentre si scola la sua tradizionale birra (lamentandosi perché solo in Germania si può bere birra decente) gli domando se l’immersione gli è piaciuta.


“La grotta è bella…” – ammette – “…ma avrebbe dovuto informarmi che l’uscita era tanto laboriosa: un sub meno esperto di me avrebbe potuto trovarsi in difficoltà!”


L’enorme e comoda uscita vera e propria non l’aveva proprio vista…

Così stetti al gioco…


“Ha ragione!” – confermai con tono umile – “Ma è un’immersione così suggestiva che non volevo la perdesse…”


“Se certe bellezze le avessimo noi, in Germania..” – replicò con tono duro – “sapremmo certo sfruttarle meglio! Avremmo già allargato quella spaccatura, l’avremmo resa più agevole e più fruibile anche da sommozzatori meno bravi di me!”


E fu questa frase a darmi l’idea.


Una settimana dopo gli proposi di tornare alla Cueva: “Ho una cosa da mostrarle” gli dissi.


Percorremmo la grotta normalmente ma, questa volta, restai al suo fianco e, giunti alla sua estremità, gli indicai l’apertura nel soffitto e fu da lì che uscimmo.

In barca aveva un’aria perplessa…


“Abbiamo seguito il suo saggio consiglio!” – gli dissi – “Ci siamo dati da fare ed abbiamo aperto una seconda uscita, più comoda e facile. Cosa ne dice?”


Bada, Italiano loco: sulle pareti dell’uscita grande, come hai visto, crescono coralli che hanno centinaia di anni… Nessuno potrebbe credere che quello sia uno squarcio aperto da pochi giorni!
Ma il Tedesco voleva crederci. Voleva credere che la sua superiore mentalità organizzativa teutonica avesse scosso quegli indolenti Latini mezzosangue che, per impulso del genio germanico, avevano finalmente combinato qualcosa di buono!

“Gut! Gut!” – assentì – “Devo ammettere che, per i mezzi che avete, avete fatto un discreto lavoro!”


“Oh!” – mi schernii – “E’ merito suo… Anzi: pensavamo che dovremmo dare alla caverna un nome che ricordi il suo contributo in questa circostanza…”


Il Tedesco gongolava: si dimenticò persino di lamentarsi perché la birra aveva troppa schiuma…”


“Così lo hai preso in giro!” –
sorrisi – “Gli hai fatto credere che lo avreste immortalato, dando nutrimento al suo smisurato orgoglio…”

“Oh, no!” –
rispose Vicente ricambiando il sorriso – “Non mi sarei mai permesso! Abbiamo fatto veramente quanto promesso: da allora la grotta che hai visitato ‘stamattina è nota in tutta l’isola con il nome di “el Agujero de l’ Alèman Tonto”… il Buco del Tedesco Sciocco”.

lunedì 16 luglio 2007

...E GENTE DI MARE


A gentile richiesta…


Vicente era vergognosamente bello, al punto che, vedendoci amici, le turiste dell’isola mi facevano la corte per arrivare a lui…

Non so quanti e quali sangui si fossero mescolati per secoli, come correnti marine che s’incontrano e s’intrecciano negli abissi, per sfociare in quel profilo Inca da Indio Caribe, in quel sorriso d’avorio africano, nella naturale eleganza dei suoi gesti da torero, in quella pelle di bronzo antico che contrastava con lampi di biondo tra i capelli e con l’azzurro anglosassone degli occhi curiosi…

C’immergevamo insieme, nel sorprendente mare del Cayo.
Con l’aiuto del brujo del vicino pueblo che spargeva misteriose polveri sul pelo dell’acqua ed accendeva ceri ad una mezza dozzina di divinità della Santeria, Vicente doveva guidarmi all’incontro che mi sfuggiva da molti anni e portarmi occhi ad occhi con il grande squalo bianco…

Era un fatto personale: la mia guida negli abissi, ogni volta che indossavamo jacket ed erogatore, mi fissava scuotendo la testa e mormorando: “Listo? Vamonos, Italiano loco!”

La sera, poi, sulla veranda di un bungalow assediata da ronzanti mosquitos, sedevamo su scricchiolanti sedie a dondolo, io con il mio bicchiere di mojito, Vicente con l’immancabile succo di frutta…
Era il momento più sereno della lunga giornata, quando, vinta la sua naturale reticenza e sapendomi goloso di storie di mare, l’amico Cubano iniziava a narrare…

Quella sera in particolare, però, c’era un ombra cupa nei suoi occhi cerulei che mi guardavano con una nota di rimprovero…

“Que pasa, amigo?” gli domandai…

Oggi hai chiesto al Viejo perché non s’immerge mai con noi…” rispose senza guardarmi.

“A Esteban, sì… Passa tutto il tempo a ricaricarci le bombole, a controllare le attrezzature… E’ sempre così gentile ed ha l’aria di uno che in acqua se la cava mica male! Mi sembrava carino invitarlo…”

“So che le tue intenzioni erano buone… ma non lo fare mai più!”


Sentivo l’avvicinarsi di una storia e mi sistemai più comodamente sulla sedia in vimini, accingendomi ad ascoltare…

“Non ce n’erano altri come lui, in mare!” – esordì Vicente – “All’inizio dei suoi tempi non esistevano pinne, giubbetti e maschere, sai? Lui è stato palombaro…

Non possiamo nemmeno immaginare cosa voglia dire, oggi!
Doveva coprirsi di lana dalla testa ai piedi per non gelare di freddo, prima d’indossare la tuta… e, poi, farsi avvitare in testa una ventina di chili di scafandro di rame… E la sua vita dipendeva da una pompa a mano, azionata dalla barca…
Ma era il migliore!

D’altra parte era una tradizione di famiglia: suo padre aveva lavorato sul fondo buio e melmoso dell’East River, attorno alla base dei piloni del ponte di Brooklyn in costruzione…


Esteban, invece, si occupava di recuperi marini…

Non ti eccitare! Niente galeoni spagnoli carichi d’oro… anche se queste acque sono piene di relitti del genere…
Per lo più si trattava di ripescare il carico di navi naufragate molto più di recente… rame cileno, nickel del Canada… cose così…


Poi, un giorno, per puro caso, fece un incontro che cambiò la sua vita…

Un uomo che portava un buffo berrettuccio di lana rossa in testa gli chiese se poteva scendere a dare un’occhiata all’elica della sua imbarcazione, ormeggiata dalle parti di Capo Maltiempo.


La nave si chiamava Calypso e quell’uomo magro, dal profilo d’aquila, era Jacques-Yves Cousteau.


Cousteau iniziava allora a sperimentare le sue invenzioni, quelle che dovevano liberare gli esploratori degli abissi marini dalle scarpacce con la suola di piombo, dagli scafandri, dal cordone ombelicale che li legava alla superficie.


Un universo d’impensabili opportunità si aprì davanti agli occhi sgranati di Esteban!

Per farla breve diventò uno dei membri dell’equipaggio della prima “Calypso”, indossò anche lui il berretto rosso e, nel giro di qualche anno, si trasformò da palombaro in uno dei primi sommozzatori della storia!


Esteban non aveva mai vissuto il mare in questo modo. Non aveva mai pensato che si potesse nuotare liberamente tra i banchi di barracuda, afferrare una tartaruga per il carapace e lasciarsi trascinare dai suoi vigorosi colpi di pinna, giocare a nascondino con i delfini…


S’innamorò perdutamente di quella vita, al punto da sacrificarle ogni cosa, ogni affetto: non si è mai sposato, non ha avuto figli… la sua famiglia era il mare…anzi : i mari, perché, a bordo della nave di Cousteau, si spinse ad esplorare i fondali e le secche di mezzo mondo.


E poi, in una mattina di Luglio di venti anni or sono, in una rada di Key West, riaffiorò da un’immersione in apnea, con nel tridente della fiocina la cernia che aveva catturato per la cena di bordo… e il motoscafo di un commercialista di Denver, incurante della boa di segnalazione bianca e rossa, lo travolse, facendo scempio del suo corpo con l’elica.


Qui a Cuba abbiamo i migliori medici del mondo, lo sai!
Ma lui era conciato davvero male: l’elica lo aveva colpito anche alla testa e restò in coma per quasi un mese…
I dottori fecero miracoli e gli salvarono la pelle, ma quando si risvegliò aveva una piastra metallica nel cranio e viti e bulloni che lo tenevano insieme…

Può condurre una vita pressoché normale… ma ha chiuso per sempre con le immersioni: poche atmosfere di pressione sul suo corpo martoriato equivalgono ad una sicura condanna a morte.


Così è tornato a casa e si è impiegato nel centro per il buceo: prepara le bombole per i sub come te e li guarda partire verso il fondo del suo amato mare... ed ogni volta muore un po’ di più dentro.


Sono certo che, prima o poi, in una notte di luna piena, indosserà una maschera, si ficcherà in bocca un erogatore, e partirà per la sua ultima immersione.

E’ così che deve andare…


Però, sino ad allora, non chiedergli più di accompagnarci: riapri antiche ferite e le fai sanguinare ancora…


Bueno: adesso che ci siamo chiariti, versati un altro rum o quello che è…
potrei narrarti l’avventura dell’Agujero de l’ Alèman tonto…”

E lo fece…
Ma questa, come si dice, è un’altra storia.

giovedì 12 luglio 2007

GENTE DEL FIUME


Lasciate che, ogni tanto almeno, tratti questo blog… come un blog.


A volte cedere ai ricordi è un modo di spingere lo sguardo nel futuro.

Come mi è capitato di scrivere in uno dei miei libri… “la casa in cui trascorsi una buona parte della mia infanzia era una sorta di cascinale, di solida bruttezza, che il nonno di mio nonno aveva costruito con le proprie mani sulle sponde del grande fiume che, nei suoi momenti di rabbia incontrollabile, invadeva con le sue acque le stanze al livello del suolo costringendo uomini ed animali a rifugiarsi al piano superiore.
Attorno ad essa si estendeva un piccolo terreno con orti, giardini e qualche albero da frutto, tra cui il ciliegio che fu piantato il giorno della mia nascita (…)
Mio nonno era uno strano uomo, un filosofo spontaneo, un poeta della natura capace di partire all’alba per le colline, con il cane alle terga e lo schioppo in spalla, per recarsi, diceva lui, a cacciare.
In tutta la sua vita non sparò mai una sola cartuccia: di fronte allo splendore della livrea di un fagiano od alle buffe corse delle lepri in amore s’incantava estasiato, dimentico dell’arma… e persino il cane, abituato al suo strano comportamento, evitava di muoversi o latrare per permettergli di godersi lo spettacolo miracoloso della vita…”
In gioventù era stato barcaiolo: con una lunga picca, che chiamavano semplicemente “punta”, spingeva sul filo della corrente le pesanti chiatte cariche della ghiaia e della sabbia che l’uomo rubava al fondo del fiume per trasformarle in materiale per costruire le sue case.
Sapevo a malapena camminare quando iniziò a portarmi con lui, nei giorni di riposo, a scoprire i luoghi segreti in cui nuotava la lontra, i nidi degli aironi, le colonie perdute di gabbiani che avevano dimenticato il mare…
Anche mia madre, giovane e bellissima, aveva familiarità con la pagaia e, mentre sedevo a prua di un’agile barca, mi regalava pomeriggi estivi d’avventura, spingendola nel tratto di fiume in cui il basso fondale ed i giochi della corrente formavano piccole rapide (i “correntini” erano chiamati) che, ai miei sgranati occhi di bambino, avevano il fascino di un luogo selvaggio e pericoloso…

Ma altri personaggi degni di memoria popolavano le sponde del fiume…
In un’ansa dalla quale la non lontana città era cancellata e nascosta dal fitto della vegetazione sorgeva una grande palafitta dall’aria malandata e precaria: lì viveva “l’Uomo Illustrato”.
Si mormorava che fosse stato marinaio e avesse girovagato per ogni oceano e nei più sperduti angoli di mondo. Nella calda estate non indossava mai altro che un ridottissimo slip nero, ma non era facile accorgersene: ogni centimetro della sua pelle era ricoperto da complicati tatuaggi rossi e blu che gli strisciavano sul corpo, si avvolgevano attorno a braccia e gambe, si spingevano sino a trasformare il suo viso in una grottesca maschera da selvaggio dei mari del sud.
Con l’impudente ed ingenua curiosità dei bambini osai chiedergli, un giorno, se quei misteriosi ed affascinanti disegni s’insinuassero anche sotto gli slip: se li abbassò, mostrando orgogliosamente un serpente bluastro che avvoltolava le proprie spire attorno al suo membro…

Molto più giovane dell’Uomo Illustrato era il “Bracconiere dalla barca blu”… così, almeno, era chiamato dalla Polizia Fluviale che da anni gli dava un’infruttuosa caccia.
Tutta la gente del fiume sapeva, ovviamente, di chi si trattasse, ma anche coloro che lo ritenevano un giovane scapestrato non lo avrebbero mai denunciato: la guerra era finita da poco ed ognuno s’ingegnava a sfangare la vita come meglio poteva.
Il sistema che lui aveva escogitato consisteva nel pescare usando le bombe a mano e la dinamite.
Poteva avere, probabilmente, una decina d’anni più di me e quando io mi avviavo verso i dodici/tredici, mi prese in simpatia, forse per il mio amore per il fiume, forse perché ero un buon pubblico per le sue gesta.
Sgattaiolavo silenziosissimo fuori dal mio letto in piena notte e lo raggiungevo nel canneto dove nascondeva la sua famosa barca, dotata di un potente motore che, però, non accendevamo, spingendola, invece, a forza di remi nel luogo che aveva scelto per l’impresa.
“Tieniti pronto” mi sussurrava strizzandomi un occhio…ed io afferravo il retino e mi sporgevo oltre il bordo, scrutando l’acqua alla luce della luna.
Lanciava la sua bomba ed una colonna d’acqua s’innalzava verso il cielo, accompagnata da un brontolio sordo e cupo e da onde che scuotevano la nostra imbarcazione.
Di lì a poco pesci d’ogni dimensione affioravano a pancia all’aria, bianchi sulle acque scure, ed io mi affrettavo a raccattarli con la mia rete…
L’uomo che sono ora, quello che tende a non uccidere neppure le zanzare, inorridisce al ricordo… ma il bambino sorride ancora, risentendo quel sapore d’avventura e ricordando le fughe spericolate con il motore che (ora sì!) ruggiva mentre l’elica sollevava spruzzi e il “Bracconiere”, in piedi a poppa, lanciava beffardi insulti alle barche che c’inseguivano…
Poi, un giorno, mi disse: “Vado via”…. Pensai si trattasse di una breve vacanza, ma la sua anima inquieta lo spinse sino a Marsiglia, dove entrò in un centro di reclutamento della Legione Straniera Francese e ne uscì con un quepì bianco in testa, diretto in Algeria.
Mi scrisse una sola lettera, per tutto il tempo che restò lontano. Diceva che tutto andava bene, che sarebbe tornato presto… e concludeva frettolosamente: “…ora devo lasciarti perché devo presenziare al funerale di trenta miei compagni caduti nell’ultima azione…”
Ritornò molti anni dopo, con occhi diversi…

Più pacata e rassicurante era la figura di Eligio, il traghettatore…
Non c’erano molti ponti, allora, sul grande fiume, a collegare la città con la sponda collinare. Chi voleva risparmiarsi chilometri di strada ed ore di percorso (anche i mezzi pubblici scarseggiavano) poteva scendere su una bassa riva fangosa, in un preciso punto che, per altro, non era segnalato da nulla, ma che tutta la gente del posto conosceva, portare le mani alla bocca a mo’ di megafono ed urlare, con quanto fiato aveva in gola: “Barcaaaaaaaa!”… e sperare che Eligio non si fosse addormentato nella calura d’agosto.
Prima o poi udiva il richiamo e, impugnata la punta, spingeva la barca a fondo piatto attraverso il fiume, per imbarcare e traghettare coloro che lo avevano invocato.
Quel viaggio di meno di un minuto aveva sempre, per me, un sapore di magia.
I rumori della città si stemperavano sino a scomparire del tutto, sostituiti dal quieto sciabordare dell’acqua sui fianchi della barca; l’odore di limo del fiume, unito a quello intenso dei cespugli di sambuco che crescevano sulla sponda, mi avvolgeva come un abbraccio e sembrava che il tempo stesso mutasse il ritmo del suo scorrere.
Eligio non traghettava semplicemente le persone sulla riva destra del fiume: apriva una porta arcana su un mondo di meraviglie inattese, di alberi imponenti come cattedrali, di rosse volpi che tentavano di forzare con astuzia le gabbie dei conigli e topi campagnoli che rubavano alle galline in cova le uova, afferrandole saldamente con le zampe, pancia all’aria, e lasciandosi poi trascinare da un compagno per la coda…

Quando incontrai i libri di Tolkien compresi che ero stato un ragazzino molto, molto fortunato: avevo passato la mia infanzia nella Contea, tra la mia bizzarra, a volte inquietante e sempre meravigliosa gente del fiume…

CON RABBIA E AMORE


Purtroppo di situazioni come quella che sarà descritta in questo post ce n'è sono a profusione, tante che, ormai, quando riceviamo una mail che racconta il caso drammatico di qualche bimbo ammalato e bisognoso d'aiuto la trattiamo come "spam", cestinandola senza troppi complimenti. Un po' come lo straniero che ti vuole lavare il parabrezza dell'auto, no? Sono tropppi, non puoi dar retta a tutti e, oltrettutto, danno un po' fastidio, ti sbattono in faccia i tuoi privilegi, per cui...sguardo fisso e duro in avanti e piede pronto sull'acceleratore. Io continuo a non credere nella "carità", io continuo a pensare che occorre insegnare a pescare, piuttosto che regalare un pesce, io resto dell'opinione che il diritto ad una vita dignitosa od a cure adeguate si conquistano con la lotta politica, da fare insieme: i "dannati della Terra" e noi "privilegiati". Questo, tuttavia, non deve significare che, in attesa che il mondo cambi, non si debba tendere talvolta una mano... Mi fido di Morgan e delle nobili battaglie che conduce attraverso il suo blog e nella vita. Perciò riporto qui un suo appello, invitando gli altri bloggers a fare altrettanto: per un giorno possiamo anche smettere di parlarci addosso e tentare di fare qualcosa di utile... Tipo salvare una vita.

Gramos Gashi è un bimbo kosovaro di 11 anni che nel 1999 è giunto in Italia con un volo militare nella speranza di capire la ragione del suo corpicino malato: gravi problemi renali ed epatici, rarissima malattia metabolica: la tirosinemia.
La cura continua che Gramos deve affrontare comporta una dieta a basso contenuto di proteine, una somministrazione di vitamina D e soluzioni di sali minerali contenenti calcio e fosforo, e un farmaco peculiare prodotto a Parigi dalla ORPHAN che ha un costo elevatissimo.
In un anno solare v’è la necessità di circa 22.000 euro per le cure e soprattutto per non lasciare Gramos con la quasi certezza di una degenerazione cancerosa del fegato, oltre ad un grave danno renale che lo porterebbe al rachitismo.
Gramos ha bisogno del nostro aiuto per vivere sereno, molti si stanno industriando per aiutarlo, facciamo sentire anche la nostra voce. Le donazioni saranno gestite dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.
Chi si occupa di questo caso è l’Associazione S.o.S. Infanzia nel Mondo Onlus, Via Stazzo Quadro, 52, 00060, Riano (Roma).
Chi volesse fare una donazione: c/c bancario 3383/85 Banca di Credito Cooperativo di Riano – abi 8787 cab 39350 cin X. Ricordate la causale: PRO GRAMOS.
Se volete maggiori informazioni per la trasparenza o solo per conoscere meglio la storia di Gramos chiamate Miriam (349.1953550) o Antonella (333.9382824) oppure scrivete a: sosinfanzianelmondo@tiscali.it.
Vi chiedo di riservare un piccolo spazio in un vostro post per diffondere la notizia, Gramos ha bisogno del nostro aiuto. Vi ringrazio per la collaborazione.

martedì 10 luglio 2007

DELLA GUERRA E ALTRE COSE


Sarah si è lamentata perché non si è data risposta ad una sua domanda (che, per altro, non era stata posta in questo blog e che, per di più, era chiaramente un po’ provocatoria).
Ciò nonostante vorrei provare ugualmente a rispondere esprimendo la mia opinione, in quanto Sarah ha un buon motivo per essere tesa e, magari, anche per non badare troppo ai modi con i quali si esprime: è in ansia per un fratello che si trova come soldato in un teatro di guerra.
Ciò che Sarah vorrebbe sapere da coloro che si dichiarano, senza se e senza ma, contro questa guerra (Iraq, Afganisthan e, domani, forse, Iran o Siria…) è cosa propongono come alternativa: lasciare che i terroristi uccidano? Permettere a piccoli tiranni di minacciare la nostra libertà?
Ovviamente occorrerebbe molto più spazio di quanto possiamo concedercene qui per una risposta esauriente, ma qualcosa credo si possa dire.

Osama Bin Laden (con la sua organizzazione di fanatici religiosi) è un bieco assassino…oggi.
Ieri era un “coraggioso combattente per la libertà”, secondo gli Statunitensi: quando attaccava gli invasori sovietici in Afganisthan. Quando si è reso conto che lo scopo degli USA non era aiutare il popolo afgano (ed arabo in generale) a liberarsi del giogo sovietico, ma, semplicemente, imporre un cambiamento di padrone, si è ribellato mordendo la mano che lo aveva nutrito.
Identico discorso, se volete, lo si può fare per Saddam: baluardo della democrazia (sempre secondo gli USA) quando si opponeva all’Iran degli ayattollah integralisti (e quando, di conseguenza, si chiudevano tutti e due gli occhi sui massacri dei Curdi, cosa che avviene ancora oggi per l’alleata Turchia, pronta ad entrare in Europa) è divenuto minaccia per il mondo libero nel momento in cui ha tentato di far rinascere una politica pan-araba.
Lasciamo perdere il fatto che queste guerre non hanno nulla a che vedere con la “lotta al terrorismo” o la famigerata “esportazione della democrazia” e c’entrano piuttosto da un lato con le riserve sempre più scarse di petrolio e, dall’altro, con l’affermazione del principio secondo il quale se gli Stati Uniti si sentono minacciati nei loro interessi hanno il diritto d’intervenire militarmente dove e come vogliono, anche (ce lo siamo dimenticato?) contro le disposizioni delle Nazioni Unite.
Facciamo finta di crederlo per un momento: qual’ è il risultato?
In Iraq, prima dell’invasione, non esisteva nessuna organizzazione di Al Qaeda, ad esempio, per il semplice fatto che un dittatore come Saddam non sopportava nessun potere alternativo al suo: oggi il terrorismo integralista islamico si diffonde ogni giorno di più. I Palestinesi erano noti nel mondo come i più laici tra gli Arabi: oggi, grazie alla politica militare dell’Occidente, un gruppo estremista come Hammas vince le elezioni. Sotto la spinta della “nostra” crociata persino Paesi tradizionalmente moderati come l’Egitto o la Giordania vedono ora il fiorire di gruppi nazionalisti arabi.
Il mondo è molto più insicuro: gli Arabi moderati e disposti ad un confronto civile con l’Occidente (ed erano tanti) sono inascoltati dalla loro stessa gente che vede villaggi bombardati e civili uccisi ed è sempre meno disposta a qualsivoglia dialogo.

Questa la fotografia della situazione… non secondo me, badate bene: secondo i più importanti centri di studi strategici del mondo, in primo luogo quelli USA.

A quanto pare sbarcare in armi e sganciare bombe intelligenti ha prodotto l’effetto contrario a ciò che si dichiarava di volere… e, qui, occorre una precisazione… se avete pazienza, perché, in realtà, si sta ottenendo proprio l’effetto desiderato.

All’unica super-potenza rimasta sul pianeta una situazione di tensione internazionale conviene: giustifica, ad esempio, l’occupazione militare delle fonti di risorse energetiche e permette di fare affari lucrosissimi prima con la guerra e, poi, con la “ricostruzione”.

L’Italia cosa c’entra in tutto ciò?
A metà del 1800 una coalizione di stati europei si alleò con l’Impero Ottomano per far guerra alla Russia zarista: fu la cosiddetta “guerra di Crimea”.
L’allora primo ministro del Regno di Sardegna, Camillo Benso conte di Cavour, decise di parteciparvi inviando il generale La Marmora con i suoi bersaglieri… e la sua motivazione è passata alla Storia; dichiarò, infatti: “Ci serve qualche centinaio di morti per sederci al tavolo delle trattative di pace!”
Sicuramente i nostri soldati sui vari teatri di guerra non sospettano d’essere solo pedine in un gioco la cui posta è, in realtà, la decisione su chi otterrà gli appalti per la realizzazione delle centrali elettriche o quale sarà il gestore della telefonia locale…e, questa, se permettete, è una cosa che m’indigna perché, anche se personalmente non condivido la scelta di chi fa delle armi il proprio mestiere, sono certo che la maggioranza di quei soldati ed ufficiali è in assoluta buona fede e pensa di rischiare la pelle per difendere i suoi cari a casa… e non perché le azioni della Montedison o dell’Agip salgano di qualche punto!

Al di là della “fotografia”, però, rimane ancora aperta la domanda iniziale: cosa si poteva fare di diverso?
Praticamente tutto… e con risultati migliori.

Dobbiamo fermare i terroristi esaltati? Facciamolo, allora! Se non ci fossimo (come Occidente) giocati ogni credibilità nei confronti della maggioranza dei governi e dei popoli arabi, Bin Laden sarebbe come un pesce fuor d’acqua, privo di coperture e protezioni.

Se, invece di decretare l’embargo commerciale che ha affamato la povera gente dell’Iraq (e non certo Saddam) spingendola a convincersi che gli Occidentali erano nemici, avessimo inviato non aerei e truppe, ma ospedali da campo, ingegneri, insegnanti, associazioni di volontari, ecc. molti più Arabi sarebbero stati in prima linea per estirpare l’estremismo dalla loro terra.

Possiamo davvero credere che un popolo sia disposto ad accettare che la “libertà” gli venga imposta con le armi?

Io credo fermamente nell’autodeterminazione.
Alcuni usi di altre genti nel mondo, francamente, mi fanno schifo: l’infibulazione (la clitoridectomia) è una pratica barbara, il burka un’usanza medievale che umilia le donne, ad esempio.
Ma devono essere le donne arabe a ribellarsi e tutto ciò che noi possiamo e dobbiamo fare è diffondere conoscenza ed agevolare una presa di coscienza: portare il nostro modo di vita sulla canna di un fucile ottiene l’effetto opposto e aggrega anche chi era moderato attorno alle posizioni degli estremisti.
Alcuni dittatori nel mondo opprimono il loro popolo in modo intollerabile: ma tocca a quel popolo ribellarsi, quando lo vorrà, se lo vorrà.
Se voglio aiutare veramente questa gente scelgo di rischiare la mia vita…non in armi, ma portando libri, cultura, idee… e lascio che decidano da soli cosa farne, perché nessuno ha nominato me (né nessun altro) tutore del mondo.
Che l’Italia ritiri le proprie truppe e le utilizzi, piuttosto, contro la mafia e la malavita organizzata… che, qui da noi, uccidono molto più di tutti i terrorismi messi insieme, se vuole garantire sicurezza alla nazione.

All’estero, sotto il Tricolore che ci identifica, facciamo vedere il volto degli ospedali di Emergency, di Mèdicine sans Frontiéres, delle cento organizzazioni ONLUS laiche e religiose: saremmo odiati meno, saremmo più sicuri...

E, cosa che più conta, faremmo una cosa più giusta.

venerdì 6 luglio 2007

DOVEROSO INTERVALLO

SONO UN UOMO DI PARTE...



Lasciatemi esordire dicendo una cosa che può presentarsi come impopolare e, solo in apparenza, in disaccordo con i miei tentativi di “equità”: ognuno ha diritto alle proprie idee, ma non tutte le idee sono ugualmente rispettabili.
Una persona è libera di pensare che sia giusto ridurre un altro essere umano al ruolo di “schiavo sessuale”, ad esempio, ma, per quanto mi riguarda, questa sua idea è oscena ed inaccettabile e, ogni volta che mi si presenterà l’occasione, l’osteggerò con tutte le mie forze; c’è chi crede che sia un suo diritto impedire agli altri di esercitare i propri: anche in questo caso non sono disposto a nessuna forma di rispetto per chi non sa rispettare a sua volta.
Questa non è una polemica con “gli eterni terzisti”: è l’apertura di una discussione nella quale mi premurerò di sostenere che vi sono circostanze e situazioni nelle quali la “neutralità” è colpevole e la “partigianeria” sacrosanta e doverosa…

Cominciando così:

Esiste una sorta di “evoluzione” anche negli usi, nei costumi, nei modi di pensare del genere umano.
Tale sviluppo, seppur in modo incostante e disomogeneo, procede lungo una linea ideale che prende le mosse dalla “barbarie” per arrivare alla “civiltà”.
Tali termini sono, ovviamente, relativi e vengono, in questo contesto, utilizzati nella loro comune ed accettata accezione lessicale che, per altro, risulterà chiara nel proseguimento dell’esposizione.
Facciamo alcuni esempi…

La “giurisprudenza” che ha caratterizzato gran parte delle epoche storiche ed una larga fetta delle terre emerse del pianeta prevedeva, di fatto, che ogni sospettato fosse considerato colpevole se non era in grado di provare la propria innocenza; cosa che, per altro, gli era spesso impedito di fare. L’accusato di un reato era, abitualmente, incarcerato senza alcun processo, su semplice ordine di chi comandava (capo-tribù, feudatario, sovrano, ecc.) e l’entità della sua pena dipendeva largamente dalla volontà dei suoi accusatori anche in quei casi nei quali un codice “dei delitti e delle pene” fosse, almeno formalmente, scritto.
Contro questo atteggiamento si alzavano le voci di coloro che lo ritenevano ingiusto ed inefficace a prevenire i delitti.
I “conservatori”, al contrario, affermavano che forme di “garantismo” come il diritto per ognuno ad una difesa ed il dovere dell’accusa di provare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, avrebbero incoraggiato i delinquenti (o gli oppositori del regime imperante) e portato la società nel caos e nella “anarchia”.
Le posizioni “conservatrici” sono state sconfitte ed oggi è opinione comune (anche se, ancora, non prassi comune in tutto il mondo) che siano più civili e corretti i princìpi secondo i quali l’accusato è innocente sino a prova contraria, nessuno può essere imprigionato senza un giusto processo ed ognuno ha diritto alla migliore delle difese possibili.

Un tempo, inoltre, la tortura era comunemente accettata come parte integrante di un interrogatorio di un presunto reo o di un oppositore politico, di un eretico, ecc.
Anche contro questa forma di violenza legalizzata i “progressisti” si batterono, a lungo inascoltati, mentre la controparte (quella che difendeva il sistema vigente ed imperante) inalberava le proprie ragioni: la tortura era necessaria per il raggiungimento della verità e, quindi, era da considerare un male minore al servizio del bene collettivo.
Oggi, nel mondo, la maggioranza delle persone ritengono la tortura fisica o psichica un crimine ed una prova di inciviltà. E’ pur vero che molti stati ancora l’adottano e che altri, in cui formalmente è esecrata, vi ricorrono più o meno segretamente, ma nel modo di pensare collettivo l’uso di torturare i prigionieri è considerato medievale e barbaro.

Lo stesso dicasi per la pena di morte. Per lunghe ere la vita umana è stata considerata tutt’altro che “sacra” ed era pieno diritto del sovrano (o dello stato) far ricorso alla forca, alla mannaia ed ai mille altri modi di esecuzione inventati, per eliminare dal corpo sociale quegli individui ritenuti, a vario titolo, pericolosi o indegni.
Oggi una parte sempre più importante dell’umanità inizia a considerare tale pratica alla stessa stregua di un’incarcerazione senza processo o del ricorso alla tortura ed è in corso una campagna di civiltà perché tale forma di condanna venga bollata come barbara ed incivile e condannata in tutto il mondo.
Anche in questo caso le voci dei “conservatori” che la vorrebbero mantenere dove ancora esiste o dei “reazionari” che vorrebbero reintrodurla ove sia stata depennata dai codici penali s’alzano a suo sostegno accampando il diritto della società a difendersi, ovvero, sostanzialmente, la stessa argomentazione che tentò inutilmente d’essere sfruttata nel caso delle incarcerazioni senza processo e dell’uso della tortura.

Il discorso, a ben vedere, non cambia se esaminiamo il mutamento, nell’immaginario collettivo, del concetto di “guerra”.
La guerra come sistema di risoluzione delle controversie è passata da “nobile arte” a “dovere imprescindibile” arrivando a “male necessario”…
Una potente corrente d’opinione che attrae sempre maggiori consensi spinge perché la guerra sia considerata anch’essa come il residuo di epoche buie ed incivili e si scontra con il variegato mondo dei “conservatori”, al cui interno vi è ancora chi la ritiene “l’igiene del mondo” al fianco di chi è spinto dalla paura del cambiamento a farvi ricorso perché la sua visione del mondo stesso non venga messa in discussione.
Inevitabilmente (la strada dalla barbarie al progresso può avere momenti di stasi o riflusso, ma non inversioni di tendenza) un giorno considereremo il ricorso alla guerra alla stessa stregua con cui oggi guardiamo all’abitudine passata di torturare i prigionieri.

Non sarebbe necessario ma, a scanso di futili obiezioni, è trasparente che per guerra s’intende quella che porto in casa altrui per difendere o preservare i miei interessi: l’azione di reazione di chi è aggredito è, al contrario, non solo legittima, ma doverosa. Non di guerra, si tratta, ma di resistenza ad un’ingiustizia. Anche in questo lecito caso, tuttavia, il principio di civiltà contrapposto alla barbarie vuole che si faccia uso della violenza solo quando ogni altro sistema di ricerca della propria liberazione sia fallito o, in altri termini, facendo un esempio che passa dal collettivo all’individuale, che non si cada mai nell’eccesso di legittima difesa… per non trasformarsi, come già più volte detto, in ciò che in origine si combatteva.

Il discorso potrebbe ulteriormente estendersi a concetti come il “nazionalismo”, reliquia di un’epoca passata, contrapposto ad un “universalismo” che inizia a radicarsi come necessità storica in un mondo in profonda trasformazione: i “conservatori” erigono barricate a difesa dei loro veri o presunti privilegi a scapito della negazione degli altrui diritti e, inevitabilmente, saranno guardati dagli occhi dei posteri allo stesso modo con cui oggi guardiamo a quei decaduti nobili nostalgici che rimpiangono la monarchia assoluta.

Che ci piaccia o meno la profonda divisione tra chi sprona l’umanità sulla strada che dalla barbarie porta verso una civilizzazione sempre più reale e chi tenta di frenare ed ostacolare questo cammino è presente ed operante. E’ una divisione trasversale a molte altre: sia su un fronte che su quello opposto possono trovarsi persone che, in altri campi, nutrono idee molto distanti tra esse e, talvolta, anche contrapposte.

Ma questa è la divisione sulla quale si gioca non il futuro dell’umanità (in quanto la strada verso il progresso è ineluttabile) ma il tempo che occorrerà per il cambiamento e quanto dolore costerà, quanto sangue dovrà ancora essere versato.

E’ su questo, esattamente su questo, che ognuno di noi, nel profondo del suo animo, deve prendere posizione e (ognuno nella misura che gli è possibile e congeniale) testimoniare la propria scelta di campo.

Non sto parlando dei nostri “blog”, amiche ed amici.
Sto parlando della vita.

giovedì 5 luglio 2007

SCUSATE IL RITARDO...


Scusate il ritardo…

“……non è stata colpa mia. Davvero, sono sincero. Quel giorno finì la benzina. Si bucò un pneumatico. Non avevo i soldi per il taxi! Il mio smoking non era arrivato in tempo dalla tintoria! Era venuto a trovarmi da lontano un amico che non vedevo da anni! Qualcuno mi rubò la macchina! Ci fu un terremoto! Una tremenda inondazione! Un'invasione di cavallette!…”

In questo periodo di relativa latitanza l’argomento che stavamo trattando si è un po’ raffreddato, com’era logico accadesse. Non posso abbandonarlo con eccessiva nonchalance, ma non mi sembra neppure il caso di proseguire con le circa quattrocento pagine che avevo previsto di scrivere :-)
Così tento (impresa disperata con un argomento come questo) un’estrema sintesi dell’Equo-pensiero… dando così a tutti, me compreso, la libertà d’occuparci d’altro, se lo vogliamo…

* L’aggressività è una qualità utile alla sopravvivenza della specie, in particolare presso quelle forme di vita animale costrette a vivere in ambienti ostili e soggette a predazione;
* I nostri antenati, cacciati dal “paradiso” degli alberi e costretti a vivere in una pericolosa e sconosciuta savana senza disporre della velocità di una gazzella, dei canini di un leopardo o della forza di un elefante, necessitavano di selezionare i soggetti maggiormente aggressivi per aumentare le loro possibilità di sopravvivenza;
* Una mano con il pollice opponibile a tutte le altre dita ha introdotto cambiamenti importanti nell’evoluzione umana: la costruzione di attrezzi, l’abitudine (poiché si portavano oggetti) a camminare in stazione eretta e, quindi, i mutamenti scheletrici che hanno permesso l’ampliamento del cranio e la possibilità della corteccia cerebrale (cervello neo-mammifero) di espandersi, il conseguente inizio di una evoluzione che non obbediva più a tempi biologici ma a quelli tecnologici: abbiamo impiegato milioni di anni per inventare l’ascia di pietra, ma siamo passati da questa ai missili balistici intercontinentali con testate nucleari multiple nel giro di pochi millenni e dalle cure mediche con salassi e sanguisughe alla manipolazione genetica nell’arco di un paio di secoli, con una progressione geometrica affascinate e terribile;
* I freni inibitori che, abitualmente, accompagnano la crescita delle potenzialità offensive di una forma animale non hanno avuto tempo di evolversi in pari grado: mentre un lupo non può, materialmente, uccidere un altro lupo al termine di un combattimento per la supremazia del branco, l’essere umano non dispone di “blocchi psico-biologici” analoghi. Le pecore combattono tra esse a testate virtualmente innocue e, quindi, non dispongono di particolari inibizioni nel portare i colpi: se legassimo delle corna d’acciaio alla testa di una di esse… sventrerebbe tutto il gregge;
* I nostri parenti più stretti che sono rimasti sulla strada di un'evoluzione non accelerata dalla tecnologia sono la prova del rapporto inversalmente proporzionale che dovrebbe sussistere tra “aggressività” e “sicurezza”: i bonobo e gli scimpanzé, relativamente deboli e soggetti a vivere in ambienti potenzialmente pericolosi, continuano a considerare l’aggressività come una qualità da preservare geneticamente; i gorilla, che non hanno praticamente nemici naturali (a parte l’Uomo) hanno comportamenti intraspecifici improntati alla massima condiscendenza: il “maschio dalla schiena argentata”, ovvero dominante, del gorilla di montagna assiste spesso alle scappatelle delle femmine del suo harem con i giovani maschi sottoposti senza accennare ad alcuna reazione e, anzi, con atteggiamenti che (in termini umani) definiremmo di bonaria tolleranza;
* L’essere umano è oggi, dal punto di vista pratico, indiscutibilmente al più alto vertice della catena alimentare e non deve più temere alcun predatore sul pianeta, ciò nonostante il “ritardo evolutivo psichico” nei confronti dello sviluppo tecnologico lo porta a comportarsi ancora come uno spaventato ominide costretto a vivere tra i pericoli della savana, piuttosto che come un tranquillo gorilla;
* Questo fatto si trasforma, in realtà, in un pericolo per la specie umana e, date le sue potenzialità distruttive, per lo stesso assetto eco-biologico planetario.
Non posso esimermi, per essere chiaro, dal fare un esempio, tra i molti che la storia della Terra ci mette a disposizione… Lo smilodonte (o tigre dai denti a sciabola) in origine possedeva canini sviluppati al pari di molti altri felini. Una mutazione genetica casuale faceva nascere, di tanto in tanto, individui con denti di maggiori dimensioni che, per questo, risultavano favoriti sia nella cattura delle prede, sia nella competizione intraspecifica. Le femmine preferivano i maschi con canini più grandi (assicuravano più cibo ai cuccioli) ed il gene “denti enormi” si trasmise sino a produrre soggetti i cui canini erano tanto sviluppati…da rappresentare un ostacolo alla caccia!
In altri termini quello che in un primo tempo era un vantaggio evolutivo si trasformò nella causa principale d’estinzione dello smilodonte. E’ quanto sta accadendo alla specie umana;
* Dal punto di vista biologico l’aggressività (ed il suo eccesso: la violenza) continuano ad essere ritenute caratteristiche desiderabili; in realtà sono una reliquia pesante e pericolosa di un passato ancora scritto nel nostro DNA;

* Tuttavia… Lo stesso cervello che ci permette di costruire armi di distruzione di massa può anche sopperire alla mancanza di freni inibitori naturali ed introdurre, al posto dei mancanti meccanismi biologici, quelli derivanti da una scelta etica.
La nostra specie deve uscire dalla sua adolescenza.
L’Uomo non è più una piccola scimmia spaventata e, quindi violenta; non è neppure il “Signore del Creato” autorizzato a far ciò che vuole della natura che lo circonda.
E’, come si diceva, qualcosa di nuovo nel panorama evolutivo: un animale che ha la facoltà di scegliere cosa vuole essere.

L’unica speranza per il futuro del pianeta è che scelga di coltivare la propria sicurezza e non le proprie ancestrali paure, che operi un cosciente e volontario sforzo per radicare in sé norme comportamentali più adatte al suo ruolo attuale.

In altre parole che decida di non essere né la vittima vendicativa, né il tiranno della Terra…ma il suo custode.