venerdì 22 febbraio 2008

GIBI'


Lo chiamavano “Gibì”.
Ufficialmente perché il suo nome completo era Giovan Battista… in realtà per alludere al “J & B”, nota marca di popolare whisky scozzese, dato che non era insolito che alzasse il gomito più del lecito.

Alcuni amici, preoccupati per come stava riducendo il suo fegato, gli consigliarono uno dei miei “stage”… e lui accettò di venire, ma non per affrontare il proprio problema: più che altro per pura curiosità intellettuale e perché, come disse dopo il colloquio preliminare con me, gli ero piaciuto.

D’altra parte avevamo molte cose in comune, ad iniziare dall’età, anche se, fisicamente, ci trovavamo agli antipodi: lui era grande e grosso per quanto io ero tappo, lui esibiva un’orgogliosa chioma leonina là dove riluceva la mia zucca pelata, lui aveva guance ben rasate e rubizze invece della mia barba precocemente incanutita…

Era un architetto, il che, data, appunto, l’età, significava che aveva frequentato la Facoltà di Architettura di Torino negli anni della grande contestazione…

Ora: chi non ha vissuto quegli anni credo non possa neppure immaginare in che cosa si fossero trasformate le sedi universitarie in quell’epoca (e in particolare quelle di architettura) sotto la spinta della frenesia creativa che giungeva dal cosiddetto “Atelier Populaire” che, da Parigi, diffondeva manifesti ed idee.

Era il tempo dell’immaginazione al potere, del “siate realisti: chiedete l’impossibile”…
Lo splendido palazzo savoiardo del Valentino che ospitava la facoltà di architettura era una fucina d’idee innovative, rivoluzionarie, talvolta strampalate ma sicuramente eccitanti. Sembrava ai futuri architetti (quasi in una sorta di allegoria massonica) d’essere chiamati non a progettare case o ponti, ma ad immaginare la “città futura”, a modellare il mondo di domani…

All’epoca in cui incontrai Gibì il ’68 era passato da venticinque anni e l’atmosfera intorno a noi era molto, molto diversa: l’immaginazione non aveva preso il potere, né l’impossibile era stato realizzato.
Anzi: una grigia e pesante cappa di restaurazione cancellava gli ultimi sprazzi di colore di una primavera durata troppo poco, consumata troppo in fretta.

Non fu difficile, durante lo stage, portare Gibì a parlare di sé: sapevo quali tasti schiacciare…
Iniziò con una pungente ed intelligente autoironia che, gradualmente, si trasformò in rabbia sorda e, infine, nella più cupa delle rassegnazioni.

“Ho fatto un solo errore!”
– mi disse – “Fermarmi per guardare indietro…”

Già: ad un certo punto della sua vita Gibì si era guardato alle spalle e, per usare una sua espressione, non aveva visto altro che la cenere di un’esistenza bruciata.
Aveva sognato di ricostruire il mondo… ma il mondo non sapeva che farsene delle sue idee e lui si ritrovava a ristrutturare vecchie fabbriche dismesse per trasformarle in centri commerciali; si era gettato in politica con l’entusiasmo e la foga di chi ha qualcosa in cui credere… solo per vedere arrivisti e maneggioni prendere un grande sogno e mutarlo in vuota demagogia; troppo preso dall’immane e futile opera della realizzazione di un ideale non aveva costruito nulla per se stesso, non aveva una famiglia, non aveva dei figli…

Ed ora non aveva più neanche il sogno.

Gli restava la bottiglia, il suo anestetico di malto delle colline scozzesi.

“Sì! Mi sto uccidendo! E allora?” – mi disse a muso duro – “Il mio lavoro mi fa schifo, la mia vita mi fa schifo… Non ho costruito niente di ciò che sognavo e sono solo come l’ultimo dei dinosauri! Ok, facciamo un patto! Io m’impegno a smettere di bere se tu mi dai una buona ragione per farlo, qualcosa che dia un senso alla mia esistenza ed in cui possa ancora credere, qualcosa che smentisca il fatto che sono inutile come una bicicletta per un pesce, superato come una parrucca incipriata!”

Un compito non facile, in apparenza: Gibì era troppo intelligente e smaliziato per essere fregato da qualche bella frase di convenienza sul valore della vita o qualche consolatoria pacca sulle spalle.

Ma io avevo l’asso nella manica, accuratamente predisposto.

Il mio asso si chiamava Dino ed aveva 18 anni.
Ciò che, invece, non aveva, era la più piccola voglia di vivere.
Schiacciato da una depressione apparentemente immotivata si trascinava privo di desideri, senza alcuna scintilla di vitalità, senza interessi, senza sogni o ambizioni.
Lo avevo osservato mentre Gibì parlava della sua giovinezza forsennata, di quelle notti passate ad immaginare il mondo di domani, di quelle piazze gremite di ragazze e ragazzi che cantavano e gridavano slogan, delle barricate, dei lacrimogeni, dell’amore rubato in un’aula magna occupata…
Avevo notato il suo sguardo farsi man mano più incuriosito, coinvolto dall’appassionata foga con cui Gibì parlava di quel regno di Utopia che avrebbe voluto costruire senza riuscirvi.

“Eccola la tua ragione…”
– dissi a Gibì indicandogli Dino – “…questo diciottenne che non è neppure l’ombra dell’ombra di quello che tu sei stato alla sua età. Lui e quelli come lui che non sanno più in cosa credere, che non hanno sogni da sognare, mulini a vento contro cui scagliarsi, barricate da erigere, mondi da progettare! Sei troppo vecchio, troppo stanco, troppo deluso per sognare ancora? Bene! Allora insegna a sognare a chi non ne è capace. Non hai avuto figli? Ecco: questo è tuo figlio… e, fuori, ce ne sono mille altri… C’è ancora tanta forza in te, vecchio mio. Devi solo scegliere: puoi usarla per costringere te stesso ad arrenderti, per avvelenarti e lentamente ammazzarti… Oppure per prendere questi ragazzi e scuoterli, trasfondere in loro tutta la passione che ti resta, narrare del passato perché riescano a credere nel futuro! Non sei riuscito a dar fuoco alla foresta? Allora prenditi cura dei singoli alberi, cazzo!”

A questo punto Dino si alzò dalla sua sedia e si accoccolò davanti a quella di Gibì. Due grosse lacrime gli brillavano negli occhi…

“Dimmelo, ti prego!”
– gli mormorò – “Dimmi come facevate ad avere tante cose in cui credere, tante cose per cui vivere! Io…io non ci riesco. Aiutami!”

E Gibì cominciò a parlare.

mercoledì 20 febbraio 2008

REDUCI... dedicata ai trentenni... che non c'erano.


E allora è venuta la voglia di rompere tutto,
le nostre famiglie, gli armadi, le chiese, i notai,
i banchi di scuola, i parenti, le "centoventotto"
trasformare in coraggio la rabbia che è dentro di noi.

E tutto che saltava in aria
e c'era un senso di vittoria...
come se tenesse conto del coraggio
la storia.

E allora è venuto il momento di organizzarsi,
di avere una linea e di unirsi intorno a un'idea,
dalle scuole ai quartieri alle fabbriche per confrontarsi,
decidere insieme la lotta in assemblea.

E tutto che sembrava pronto
per fare la rivoluzione...
ma era una tua immagine o soltanto
una bella intenzione.

E allora è venuto il momento dei lunghi discorsi,
ripartire da zero e occuparsi un momento di noi,
affrontare la crisi, parlare, parlare e sfogarsi,
e guardarsi di dentro per sapere chi sei.

E c'era l'orgoglio di capire
e poi la certezza di una svolta...
come se capir la crisi voglia dire
che la crisi è risolta.

E allora ti torna la voglia di fare un'azione,
ma ti sfugge di mano e si invischia ogni gesto che fai,
la sola certezza che resta è la tua confusione,
il vantaggio di avere coscienza di quello che sei...

ma il fatto di avere la coscienza
che sei nella merda più totale
è l'unica sostanziale differenza
da un borghese normale.

E allora ci siamo sentiti insicuri e stravolti,
come reduci laceri e stanchi, come inutili eroi,
con le bende perdute per strada e le fasce sui volti
già a vent'anni siam qui a raccontare ai nipoti che noi
...

noi buttavamo tutto in aria
e c'era un senso di vittoria....
come se tenesse conto del coraggio
la storia.

UN TRAM CHIAMATO UTOPIA


Prima di parlare, come più o meno promesso, della “comunicazione” e di come si possa migliorare la nostra capacità di capire gli altri e farci capire da loro, lasciate che vi racconti una storia che, per una volta, non è mia, non appartiene al bagaglio delle mie personali esperienze.
E’ stata disegnata, molti anni or sono, da quel geniale e mai abbastanza rimpianto autore di fumetti che si firmava con lo pseudonimo di “Bonvi”.
Purtroppo in uno dei miei innumerevoli traslochi è andato perso il numero della rivista che la pubblicò: dovrò sopperire con la fantasia là dove non mi soccorrerà la memoria, ma il succo della storia manterrà, mi auguro, il sapore originale…

Ed ora, signore e signori, andiamo a incominciare…

Milano – Esterno Notte

L’ultimo tram arranca sferragliando per le strade umide e nebbiose di una città addormentata.
A bordo, oltre al manovratore ed al bigliettaio, un piccolo campionario di un’umanità spicciola, banalmente normale, moderatamente squallida.

C’è una donna, ancora giovane, ancora avvenente, ma già ferita dalle delusioni, dagli abbandoni, probabilmente pronta a lasciarsi andare alla rassegnazione, a considerare le fantasie romantiche di cui si è nutrita come una malattia infantile dalla quale sta guarendo per approdare alla normalità di una vita senza sorprese, senza entusiasmi…

Poco distante siede, assorto nei suoi pensieri, un impiegato che rientra dopo lunghe ore di lavoro straordinario effettuate sotto la supervisione del suo dispotico e sprezzante capufficio, un uomo rozzo che sembra divertirsi ad angariarlo ed a metterlo alla berlina di fronte ai colleghi; come sempre il nostro passeggero sta immaginando le parole dure e taglienti con le quali vorrebbe rispondergli per le rime… le parole che non avrà mai il coraggio di pronunciare.

Anche il terzo passeggero sta rincasando insolitamente tardi: ha trovato scuse su scuse per rimandare il suo ritorno ad una casa in cui lo attendono quella donna che ha amato, in un tempo lontano, e che ora è per lui un’estranea rancorosa, ed i loro figli, due adolescenti pretenziosi ed irrispettosi, sempre pronti ad allearsi con la madre per rimproveragli tutto ciò che non è in grado di dar loro…

Milano – Esterno Notte

L’ultimo tram in servizio effettua una fermata ed al gruppetto di passeggeri si aggiunge un giovane con biondi capelli scarmigliati, la barba lunga ed uno sguardo stranamente lucido, brillante, che contrasta con le palpebre abbassate ed appesantite dei suoi compagni di viaggio.
Improvvisamente il giovane estrae, da una tasca della giubba militare male in arnese che indossa, una bomba a mano e, brandendola, si rivolge al manovratore ed a tutti i presenti dichiarando: “Questo è un dirottamento! Fai rotta verso Cuba!”

Sbigottiti ed allarmati i passeggeri si guardano tra loro, incapaci di credere a ciò che sta accadendo. Il manovratore tenta timidamente di spiegare che quello è un tram, non un aereo e che non crede che le rotaie possano proseguire sull’Atlantico… ma il giovane non lo ascolta neppure: baloccandosi con la sua bomba si limita a dirgli qualcosa come: “Tu pensa a guidare…”

Approfittando di un attimo di distrazione dello strano dirottatore il bigliettaio riesce ad azionare una porta, saltare giù dal mezzo in movimento e scomparire nella notte milanese, ma tutti gli altri a bordo sono ormai bloccati, nelle mani di un pazzo che vuole dirottare un tram su Cuba!

Ed a questo punto, mentre il panico inizia a serpeggiare, a bassa voce, quasi come se parlasse solo con se stesso, il giovane con la bomba comincia a narrare del posto in cui sono ora, secondo lui, diretti, inizia a parlare di Cuba…

Naturalmente non è la Cuba reale, ma quella che le sue fantasie malate stanno da tempo sognando come via di fuga da una realtà che l’opprime.
E’ un luogo di sogno, con giorni sempre inondati di sole e notti profumate dai sensuali fiori del frangipane; un’isola dalle spiagge di candida sabbia, circondata da un mare di smeraldo che nasconde preziosi coralli d’ogni colore e relitti di galeoni spagnoli ancora ricolmi d’oro, perle e pietre preziose; un Paese popolato di donne bellissime, sempre allegre e gioviali, di uomini dallo sguardo franco ed onesto…
Più ancora: è il luogo dove ogni ingiustizia è stata sconfitta, dove non si conosce il razzismo od il disprezzo del diverso, dove gli esseri umani si sentono fratelli e si aiutano a vicenda nella difficoltà… è la nazione in cui si sta costruendo una società di liberi e di uguali, profondamente diversa dalla triste burocrazia dei Paesi dell’Est, un socialismo solare, caraìbico, che ha il sapore del rum di canna ed il ritmo della rumba!

I passeggeri lo ascoltano… e sanno bene che le sue sono le fantasie di un povero pazzo.
Tuttavia…
E’ tale e tanta l’energia che si sprigiona dalle sue allucinate parole, da quel suo sguardo perso in immagini che solo lui vede e, pure, tanto vivo, tanto luminoso, che, quasi per gioco, nella loro mente iniziano a farsi strada brandelli di sogno…
E la giovane donna, senza crederci veramente, in un primo tempo, prova ad immaginarsi l’aitante cavaliere dal bel corpo abbronzato che la stringe tra le braccia, che le sussurra appassionate parole d’amore all’orecchio, sullo sfondo di un tropicale tramonto incendiario…

Ed al timido, supino impiegatuccio sfugge un sorriso mentre immagina la faccia del capufficio che riceve la cartolina dove lui è ritratto con due meravigliose mulatte sorridenti che lo abbracciano mentre sorseggia un mojito… ed arriva quasi alla risata nell’istante in cui gli sembra di vedere la rabbia che coglie il suo persecutore nel leggere il testo che lui ha vergato di sua mano sul retro della fotografia: “Buon lavoro, coglione!”

Il padre di famiglia, in quello stesso momento, sta pensando a Fidel Castro, al “Che”, alla Rivoluzione… a Marx che diceva. “Non avete altro da perdere che le vostre catene!” E riesce a vederle, queste catene: bollette, ingiunzioni di pagamento, rate, il mutuo, avvisi bancari…e le altre, quelle più pesanti, le catene di un affetto rugginoso e greve, la moglie, i figli, le responsabilità… “Un calcio a tutto” – pensa – “Certo, non si può fare, non si deve… ma, dio! Come sarei più leggero!” Improvvisamente si ricorda di quando aveva vent’anni e voleva scrivere. Gli bruciavano dentro, allora, mille storie che avrebbe voluto narrare e che seppellì da qualche parte, negli angoli più segreti della sua anima…perché… la famiglia, il lavoro… si deve crescere, che diamine!
“A Cuba” – pensa – “A Cuba riuscirei a scrivere… e non è colpa mia: è il tram che è stato dirottato…” e quasi gli viene da sperare che l’impossibile si realizzi.

Così, senza rendersene conto, iniziano a parlare tra loro di quanto potrebbero realizzare a Cuba, di cosa potranno abbandonare una volta arrivati, di come siano felici di questa nuova occasione che la vita sta offrendo loro.

Intanto il bigliettaio fuggito ha dato l’allarme.
Polizia e Carabinieri, consapevoli di trovarsi di fronte ad un pazzo, organizzano un piano: manovrando a distanza gli scambi automatici dirigono il tram verso un deposito periferico che, nel frattempo, viene esteriormente trasformato e camuffato.
Sulla sua facciata viene montata una grande insegna luminosa che reca la scritta:
“Aeroporto de La Habana” e tutt’intorno, a coronamento, molte bandierine con “un rubin, cinco fragas y un’estrella”, molte bandierine di Cuba, insomma. Tanto per non lasciare dubbi qualcuno trova anche un grande ritratto di Ernesto “Che” Guevara e lo appiccica in bella vista…

Così, agli occhi di un frastornato manovratore, ad un tratto la nebbiosa notte milanese si trasforma in un’esplosione di luci e colori ed i binari che il tram sta percorrendo finiscono, dritti-dritti, in un fantasmagorico aeroporto da favola.

Ed allora, sul tram, esplode l’entusiasmo: nessuno si chiede più come sia stato possibile realizzare l’impossibile; l’unica cosa che conta è che, ora, sono a Cuba, lontani dal grigiore della loro vita, pronti a ricominciare, a giocarsi al meglio le nuove carte che la sorte ha loro assegnate.

Ci si abbraccia, ci si congratula, ci si da appuntamento per il giorno dopo, sulla spiaggia… ed appena messo piede a terra gli agenti si lanciano sul giovane folle, gli sottraggono la bomba (che risulta finta), lo ammanettano e lo portano via…

E l’incanto, improvvisamente, si spezza, si frantuma. Le luci si spengono, si spengono le illusioni e le speranze.

Ognuno dei passeggeri è pronto a compiere una veloce, radicale, capriola mentale: da questo momento negherà anche a se stesso che, per un istante della sua grigia esistenza, ha avuto il coraggio di sognare l’irrealizzabile.

Negli occhi della giovane donna, forse, la luce resta accesa per un secondo in più, mentre osserva il ragazzo dai biondi capelli scomposti che viene trascinato lontano… ma poi anche lei si stringe nelle spalle pensando: “Bèh…in fondo era solo un pazzo!”

Milano Esterno – Notte

Non ci sono più tram.


Le persone che sanno benissimo che non si possono dirottare tram su Cuba, quelle che, con razionale cinismo logico ti guardano sorridendo e ti dicono: “L’uomo non cambierà mai!” e “Le cose sono sempre andate così e così andranno sempre”, le persone che hanno i piedi per terra e non la testa tra le nuvole, quelle che badano al concreto, che sono realiste, che non si perdono in sogni utopici adolescenziali, sono le meglio attrezzate per vivere in questa società, per avere un’esistenza normale, una normale famiglia, una normale carriera…

Gli altri, i sognatori, i poeti, i bambini mai cresciuti, i folli, spesso, molto spesso, finiscono con le manette ai polsi, in una camera imbottita o, più semplicemente, rinchiusi nel ghetto dell’indifferenza.

Ma qualche volta, qualche rara volta, la forza del loro sogno è talmente grande, l’assurda grandezza della loro visione tanto coinvolgente, che altre menti iniziano a sognare lo stesso loro sogno… e la cosa si espande, come un contagio, come un virus che cancella e modifica la realtà.

Allora loro, i sognatori, i poeti, i bambini mai cresciuti ed i folli, cambiano il mondo.

Milano Esterno – Notte

L’ultimo tram sta passando.
Che fate?

venerdì 15 febbraio 2008

RISPETTO

Scrissi, in un vecchio post in cui si parlava di “Euclide e la Bicicletta”, che “…tutto ciò che vale la pena d’essere appreso non può essere insegnato…”, intendendo, ovviamente, che la vera conoscenza nasce dall’esperienza, dai personali “vissuti”… e non dalle nozioni acquisite.

Dovremo dedurne, tra l’altro, che vi siano alcuni tipi di “sapere” che sono riservati a certe categorie umane e preclusi ad altre.
Ad esempio a me non sarà mai dato di conoscere sino in fondo cosa si provi ad essere un Nero che vive negli anni ’50 dello scorso secolo a Pretoria: posso cercare di intuirlo, farmene un’idea ragionevole…ma l’esperienza diretta non mi apparterrà mai.

Allo stesso modo vi sono “conoscenze” che appartengono ad un solo sesso…
Quel geniale borghesuccio mitteleuropeo di Sigmund Freud ci ha parlato, a proposito delle donne, di “invidia del pene”.
Forse meglio avrebbe fatto a soffermarsi anche, esaminando i maschi, su quella che potremmo chiamare “invidia della creazione”.

Nessun uomo potrà mai sapere (sapere veramente) cosa significhi sentir sbocciare un’altra vita nel proprio corpo, custodirla e proteggerla per nove lune, avvertirne la crescita, il battito del cuore, i primi movimenti, diventare due persone in una…
Nessun uomo potrà mai sapere (sapere veramente) cosa voglia dire dover decidere di strappare questa vita dalla propria.

L’aborto, per una donna, è sempre un dramma, una scelta lacerante che lascia ferite e cicatrici, che genera, anche quando sia inevitabile, sofferenza profonda… e noi uomini, che da questa tragedia intima possiamo solo essere sfiorati, su un tema di tale intensità emotiva dovremmo solo mantenere un rispettoso e partecipe silenzio.

Il massimo che dovrebbe esserci consentito è di esporre alcune considerazioni generiche, valide anche, in fondo, per ogni cosa della vita: se siamo all’interno di una casa e le porte sono aperte, chi vuole può uscirne, chi lo desidera può restare… ma se le porte stesse sono serrate a chiave anche chi volesse raggiungere l’esterno ne è impedito.
In altre parole un diritto non obbliga nessuno ad usufruirne, un divieto costringe tutti ad obbedirvi.

E’ un semplice concetto di libertà individuale, ma, detto questo, meglio faremmo a tacere ed a non entrare nel merito di una così personale e sofferta scelta che spetta alla donna (e solo a lei) effettuare, così come a lei toccherà di pagarne il prezzo emotivo.

Per questa ragione, soprattutto se maschi, ci si dovrebbe accostare al tema dell’aborto con delicatezza e riserbo.

Per questa ragione Giuliano Ferrara dovrebbe vergognarsi profondamente di se stesso.

giovedì 7 febbraio 2008

FELICE ANNO DEL TOPO


...insomma: fate del vostro meglio, eh?

sabato 2 febbraio 2008

POLITICA ITALIANA




MAI, DICO MAI, SOTTOVALUTARE I PAGLIACCI !!!