domenica 30 settembre 2007

TRANCHE DE VIE


In attesa che trovi l’ispirazione per narrarvi ancora qualche significativo “tranche de vie” tratto dalle mie passate (?!) attività professionali vi voglio omaggiare con un racconto, altrettanto vero, che, in qualche modo, si ricollega ad alcuni drammatici avvenimenti odierni. Il racconto non è inedito: lo inserii in uno dei miei libri, pubblicato nell’ormai lontano 1987 e qui lo ripropongo tale e quale, a parte il taglio di un periodo che non sarebbe comprensibile estraniato dal contesto. Perdonate la lunghezza e… ecco la storia:

“All’inizio degli anni ’60 mi ero legato d’amicizia con un giovane Vietnamita che studiava in Italia: ad avvicinarmi a Nguien Tran Quoc fu, in un primo tempo, la comune passione per le filosofie orientali che, se per me aveva un sapore esotico, in lui assumeva la forma di una ricerca delle radici della sua cultura. Fu lui, tra l’altro, a farmi scoprire il Viet-Vo-Dao, l’Arte Marziale vietnamita che, allora, era pressoché sconosciuta in Europa e che contava un ristrettissimo numero di praticanti, per lo più Francesi.
Nella primavera del 1963 Nguien venne ad annunciarmi che abbandonava l’università, avendo deciso di tornare in patria, turbato da quanto stava accadendovi. Erano gli anni in cui quello che diventerà uno dei più sanguinosi conflitti di questi ultimi decenni muoveva i suoi primi passi; nelle foreste vietnamite esercito regolare e guerriglieri si scontravano in armi mentre nelle città i cortei studenteschi affrontavano le violente cariche della polizia che difendeva un regime traballante.

“C’è bisogno anche di me…” – mi disse Nguien – “sento che il mio posto adesso e là!”

Tentai, in un primo tempo, di dissuaderlo, ma era talmente risoluto nella sua scelta che compresi subito che non ci sarei riuscito.

“Perché non vieni con me?” – mi domandò invece – “Smettila di sognare l’Asia e vieni a conoscerla nella sua realtà più cruda, fuori dal sogno romantico che ne coltivi…”

A diciotto anni si può essere terribilmente impulsivi: l’idea mi affascinò in modo irresistibile, ma si scontrava con le mie possibilità economiche che erano, a dire il vero, piuttosto modeste. Non mi persi però d’animo: avevo, in quel periodo, iniziato una collaborazione con un settimanale della Svizzera italiana al quale inviavo articoli giornalistici di vario genere e proposi alla sua redazione di disporre di un “inviato speciale” in Viet-Nam che avrebbe loro spedito corrispondenze “dal vivo” di quella situazione al solo costo del viaggio. Il tormentato Paese del sud-est asiatico si stava imponendo all’attenzione del mondo e, seppure con qualche perplessità, accettarono la mia offerta al patto che corredassi i “servizi” anche con del materiale fotografico.

In quella che, a quel tempo, si chiamava Saigon, Nguien trovò da sistemarmi presso alcuni suoi gentilissimi parenti che, oltre ad offrirmi un posto per dormire e dei pranzi squisiti di una cucina povera ma raffinata, avevano anche il vantaggio di parlare perfettamente francese e divennero, in questo modo, il mio tramite per le interviste che volevo realizzare e gli articoli che dovevo scrivere.
A dire il vero, ancora preso dai miei personali interessi, mi occupavo della situazione politico-militare per quello stretto necessario che mi consentiva di non mancare all’impegno che mi ero assunto: per il resto del mio tempo preferivo andare alla ricerca di vecchi templi o farmi narrare da anziani contadini le leggende ed i miti di quella cultura.
Nguien, al contrario, si era lanciato nel turbinoso mondo dell’azione politica: lo vedevo sempre meno spesso e sapevo che trascorreva il suo tempo in riunioni studentesche semi-clandestine dove si decidevano le agitazioni e gli scioperi che sconvolgevano la vita della città.

“Mi stupisco di te!” – gli dissi un giorno – “Sei un Praticante: cosa c’entra la politica con la Ricerca della Via? Non dovresti essere superiore alla transitorietà del momento?”

“La Via è, prima di tutto, Liberazione” – mi rispose sorridendo – “Vi sono dei periodi in cui il primo dovere di un Praticante è d’impegnarsi nel gorgo degli avvenimenti quotidiani: non che voglia paragonarmi a loro, ma anche i Bodhisattva rinunciano alla perfezione del Nirvana per aiutare tutti gli esseri viventi a liberarsi dalle catene che li avvincono. .. Comunque: perché non vieni domani pomeriggio a casa mia? Ti farò conoscere una persona che t’interesserà certamente…”

Il giorno dopo mi recai da lui attendendomi d’incontrare un qualche capo-popolo studentesco o, magari, uno dei mitici guerriglieri che riempivano con le loro gesta le pagine dei quotidiani.
Ai miei occhi stupiti apparve, invece, la tonaca color zafferano di un Monaco buddhista.

Poteva avere una trentina d’anni, anche se il cranio accuratamente rasato lo faceva sembrare più vecchio. Sul suo cuoio capelluto notai i segni delle ustioni provocate dall’ardere dei piccoli coni di moxa, pratica che, in alcuni monasteri, era abituale per consentire al religioso di misurarsi con le proprie capacità di controllo del dolore…

“Questo” – disse Nguien rivolto a me – “è il Venerabile Van Tien. Sta ultimando il suo giro di saluto agli amici perché ha deciso, domani, di effettuare la “Trasformazione Seduta…”

Era la prima volta che sentivo quello strano termine, non capivo e lo dissi.

“Oh!” – mi spiegò il mio amico – “E’ un antico rito buddhista che, in questo caso, il Venerabile eseguirà come segno di disapprovazione per le uccisioni degli studenti avvenute negli scorsi giorni…”
Sentivo una strana tensione nel suo tono di voce, anche se si sforzava di mantenerlo tranquillo e colloquiale.

“In pratica” – continuò – “consiste in questo: tra non molte ore il Venerabile Van Tien, in una piazza della nostra città, si concentrerà pubblicamente in preghiera. Poi si cospargerà il corpo di benzina appiccandosi il fuoco…”

Stentavo a credere alle mie orecchie; guardavo la faccia serena del Monaco che mi sedeva accanto e sentivo l’orrore insinuarsi nel mio animo.

“E’ assurdo!” – tentai di protestare - " E’ inumano! A cosa può servire questo sacrificio?!”
“E’ difficile da spiegare ad un Occidentale…” – rispose Nguien – “Non si tratta di un sacrificio, ma di una… testimonianza, potremmo dire. Comunque tu dovresti essere un giornalista, no? Fai il tuo lavoro: vorremmo che la notizia di quanto accade in questo nostro Paese arrivasse in tutto il mondo. Puoi rivolgere le tue domande al Venerabile e, domani, non scordarti di portare la macchina fotografica…”

Mentre scrivo oggi, a più di vent’anni di distanza da quei tragici giorni, ho sotto gli occhi un’ingiallita copia della rivista che pubblicò il mio articolo… ma non vi sono fotografie.
Altri, molto più “giornalisti” di me, le scattarono. Io non ci riuscii: i miei sensi tesi sino allo spasimo non consentirono alle braccia di sollevare la Nikon.
Mi limitai a guardare.
A guardare il Venerabile Van Tien che, incredibilmente, restava composto nella posizione di meditazione mentre il fuoco lo consumava e il suo volto che, finché fui in grado di vederlo, mantenne un’espressione distaccata ed assente, serena e quasi sorridente.

(…………………………………………………………………………………………………..)

Non scattai fotografie, quel giorno.
Mi limitai a guardare…
Sino a che Nguien mi circondò le spalle con un abbraccio dicendomi gentilmente:

“E’ finita. Andiamo, ora. E smettila di piangere: oggi hai imparato qualche cosa in più, sull’Asia”.

12 commenti:

Elys ha detto...

Un bel racconto, ma è una storia vera, nel senso ti è davvero successo? Io non capirò mai certe concezioni di vita dei popoli orientali. Mi fa venire in mente i kamikaze giapponesi (si scrive così?) e il modo in cui concepivano quel sacrificio che a me sembrava solo una decisione inumana e crudele.

Anonimo ha detto...

Equo.
Non posso esprimermi come ho reagito realmente alla fine della lettura del tuo racconto, ma... mi hai emozionato per la miseria!

E non voglio fermarmi solo a questo, ma la cosidetta "testimonianza", tra mille perplessità, la trovo una cosa nobile non un buttar via la vita.

Blue ha detto...

Io invece sento così vicino quel sentimento, quella spinta, che ti porta a lasciare una testimonianza. Di una profondità e una nobiltà...un segno che in me si incide come nella pietra. In cui veramente lasci camminare il Dio che è in te...

Francesco Candeliere ha detto...

Equo, non ho parole per quello che hai raccontato:grazie!!!

ska ha detto...

E' vero: è difficile da capire per un occidentale...specialmente per noi cresciuti in una società che ti spinge ad occuparti solo di te e dei tuoi figli, del tuo orticello insomma.
Senz'altro non sarei capace di un simile gesto, ma l'ammirazione che questi UOMINI destano in noi sono una spinta a migliorare noi stessi e il mondo.
Anche a me piacerebbe capirne di più, abbandonarmi ad una nuova concezione della vita, dell'esistenza del mondo, del nostro senso su questa terra.

Per inciso ho provato più di una volta a...capire, ma mi sono ritrovata in una riunione di buddhisti fai-da-te che cantilenavano nam-myo-ho-renge-kio per il raggiungimento di un obiettivo personale. Il che mi è parso un po' strano, un po' troppo utilitaristico. Ci ho capito poco e poi ho scoperto che questo tipo di buddhismo che si sta diffondendo nell'occidente è un buddhismo all'acqua di rose, molto facile nei suoi concetti e nella sua applicazione, che richiede un minimo sacrificio, quanto di più lontano dal buddhismo "vero", e che il suo ideatore, Daisaku Ikeda, è un personaggio ricchissimo e molto controverso, legato a filo doppio al regime giapponese che ha anche perseguitato dei monaci.
Mi sono sentita molto confusa, e mi sono arresa all'idea che non avrei mai capito cosa fosse il buddhismo. In questi giorni ne sto capendo un po' di più.
Grazie, Equo.

ska ha detto...

"La Via è, prima di tutto, Liberazione"

Stupendo.

Equo ha detto...

Provate a spiegare il colore rosso ad una persona cieca dalla nascita... Non è facile, per noi Occidentali, capire. D'altra parte gli Orientali tradizionalisti hanno grossi problemi a comprendere noi. Spesso mi sono sentito chiedere: "Ma se voi Cristiani siete certi del Paradiso, perché piangete alla morte di una persona buona, invece di gioire?" Cercavo di spiegare che, anche chi crede in una vita eterna dopo la morte, piange, in realtà per un piccolo,giustificabile egoismo: piange per la propria perdita... ma li vedevo perplessi...
La testimonianza dei Monaci vietnamiti, il Seppuku dei Samurai giapponesi od il gesto dei Kamikaze non si possono comprendere se non a partire da una enorme differenza filosofica tra Oriente ed Occidente. Per un Buddhista ogni vita (anche quella di un insetto) è sacra... ma la Vita in sé non è "un dono", ma una condanna! La vita è ciò che ci tiene separati dal Tutto, dall'Unione con l'Esistente: occorre spenderla al meglio, coltivare buoni pensieri, buone parole, buone azioni... per liberarsene e tornare alla fusione con l'Universo, al Nirvana, alla vera Liberazione dal mondo illusorio in cui siamo confinati...
I Buddhisti come quelli incontrati da Skakkina, che recitano dei Mantra allo scopo di...vincere al superenalotto o trovare l'anima gemella, c'entrano con il Buddhismo più o meno come Torquemada c'entra con il messaggio di tolleranza del Cristo. E, per ora, mi fermo perché, ovviamente, il discorso è troppo lungo e complesso per un commento. In ogni caso... date un senso alla vostra vita, con la vita, se potete, con la morte se è indispensabile.
Namasté.

elena ha detto...

Devo essere troppo stupida per capire certe sottigliezze... oppure son troppo imbevuta delle mie convinzioni. Non dico che la "filosofia" orientale sia perfettaemnte comprensibile o che il buddismo sia il mio pane, anzi... però non riesco a trovare questa gran differenza tra il monaco che si arde in VietNam e Jan Palach... o a un qualsiasi vigile del fuoco che salta in un incendio per salvare qualcun altro, pur sapendo che rischia e a volte non solo quello. Non dico che io lo farei... penso che uno possa sapere come si comporterebbe solo nel momento in cui ci si trova, nelle situazioni.
Sì, sono l'allieva tontolona... Equo, mi spieghi? :)
Bella e giusta, per me, la tua decisione di non scattare foto. Ma, apparentemente, poco funzionale... (anche se un video sarebbe stato meglio). D'altronde la dimostrazione che neppure una foto, per quanto drammatica, possa penetrare le coscienze per più di qualche secondo l'ha data il fatto che qualcun altro ha fatto le foto... e la guerra è proseguita ugualmente. :(

Equo ha detto...

Le differenze ci sono. Possono apparire sottili, ma, in realtà, permeano ogni azione quotidiana. L'implicazione principale derivante da esse sta nel diverso concetto della parola "responsabilità". Nel Buddhimo (quello "vero", ok?) non c'è il concetto di peccato, non esistendo un Dio che premia o che punisce, e l'Uomo è lasciato solo con la propria coscienza: se farà del bene, se diverrà una brava persona, lo farà non con la speranza di un premio, non per il timore di una punizione, ma perché... è la cosa giusta da fare.
Provate ad immaginare che, di fronte a qualsiasi tipo di scelta, ci si domandi solo "qual'è la cosa giusta"... e non quanto costa farla, quanto è utile farla, cosa ce ne verrà in tasca, ecc.
Quanto cambierebbe la nostra vita e quella di tutti? Quanti alibi cadrebbero miseramente? "Ho capito che la guerra è una cosa brutta, ma se ora diserto finisco in galera e, comunque, a cosa vuoi che serva... tanto manderanno degli altri! Quindi resto a fare il soldato, anche se non sono d'accordo!"
"Lei mi manca tanto... ma se sono io a telefonare sembra che ammetta che la colpa del litigio era mia e magari poi lei se ne approfitta, per cui non lo faccio e aspetto!" e via così con mille possibili esempi di situazioni importanti od ordinarie nella quali, però, quasi mai ci domandiamo seriamente cosa sarebbe giusto, dato che siamo stati abituati a pensare in termini di "premio" e di "castigo". I migliori di noi fanno degli accettabili compromessi e conducono una vita dignitosamente "giusta"...ma forse, a giudicare dallo stato del mondo, non basta ancora. I "radicali della giustizia" finiscono per essere degli stanchi Don Chisciotte che i mulini a vento continuano a sbatacchiare qua e là, relegandoli in qualche nicchia d'inutilità... oppure si bruciano in piazza.

Anonimo ha detto...

Sono fondamentalmente un romantico idealista inquinato dal pragmatismo (deluso dalla storia).
Ammiro gli eroi, ma lòe mie preferenze sono sempre andate a quelli con la spada in pugno.

by Mat

Equo ha detto...

Dovresti venirmi a trovare, Mat! Alle pareti di casa mia di spade ne sono appese una ventina, credo... e ti assicuro che non è un caso. Ammiro profondamente le Grandi Anime che sanno testimoniare con la vita e la morte la loro scelta di non-violenza, ma esiste anche un'altra corrente monastica, in Oriente: i Monaci Shao-Lin o i Mohisti cinesi, gli Yamabushi del Giappone... Monaci-Guerrieri, gente di pace con una spada al fianco.Perché la Storia (quella che ti ha deluso)tra l'altro c'insegna perfettamente che fine fanno i "profeti disarmati"...

Anonimo ha detto...

Ottimo Equo, grandi concordanza di idee anche se di filosofia orientale e dei loro usi e costumi conosco poco o niente.
Ho sempre pensato che "i cattivi" vanno resi inoffensivi.
Purtroppo questa assurda civiltà di oggi ha disarmato i "cavalieri" con una retorica stupida e qualunquista, mentre i cattivi si armano più di sempre.
Spero che le tue armi bianche siano state denunciate, altrimenti saresti una minaccia per la pace del paese :-)

Sei un esempio da seguire. Ciao

By Mat