sabato 1 novembre 2008

LAST MATCH

Una qualche spiegazione la dovevo…

“…E i sogni, i sogni, i sogni vengono dal mare,
per tutti quelli che han sempre scelto di sbagliare,
perché, perché vincere significa "accettare"
se arrivo vuol dire che a "qualcuno può servire”,
e questo, lo dovessi mai fare, tu, questo, non me lo perdonare…”


Mio figlio sostiene che ho preso troppo sul serio queste parole che Vecchioni ha inserito nella sua canzone “Figlia”… cosa che, probabilmente, è dannatamente vera.

Io esprimevo lo stesso concetto in altro modo: molti, veramente molti, anni or sono, mi sono imposto un comandamento: “Di fronte alla necessità di operare una scelta non domandarti mai cosa sia più utile, ma cosa sia più giusto”.

Ho cercato di vivere secondo questo principio, ma agire da Don Chisciotte in un mondo di mercanti ha un prezzo… e ti va di lusso quando a pagare sei solo tu.
Purtroppo non è così che funziona: le scelte di rigore, di coerenza, forse, talvolta, anche di eccessiva rigidità, le pagano anche gli altri, quelli che ti sono più vicini.

Come se una Nemesis beffarda avesse atteso il momento più opportuno, quello in cui ero più debole ed indifeso, per sferrare il suo attacco, tutti i nodi di una vita sono arrivati al pettine contemporaneamente…

Così l’aver chiesto al mio corpo di dare più di quanto avesse mi ha trasformato in una sorta d’invalido, che cammina a stento, con fatica e dolore; l’aver optato per la coerenza del mio “giusto” comportamento fa di me un vecchio che non ha una casa in cui andare, non ha un centesimo da parte né la prospettiva di una pensione, non ha più un lavoro e, presumibilmente, neanche la speranza di trovarne uno in queste condizioni.

Mi restavano i sentimenti.

Io, pur non essendo mai entrato in una chiesa per sancire davanti ad un dio il mio amore, ho sempre preso molto sul serio la formula “in salute e in malattia, in ricchezza e povertà…”, ecc.
Ma questo, come ogni cosa, giustamente non vale per tutti: altri, che non hanno la mia ostinazione verso cosa sia giusto e che sono più propensi all’attenzione verso le cose utili, proficue o, per lo meno, non dannose, hanno sentimenti che durano… “sino a che la fatica non è più del gusto”.

Vivere con un vecchio invalido costretto a farsi mantenere non è piacevole per nessuno e lo si può accettare (persino con gioia) solo se si sanno sganciare i sentimenti stessi dalla voglia di soddisfare immediatamente i propri bisogni.

Così, per non continuare ad essere una palla al piede, un peso da trascinare, un freno al libero volo della donna che amavo ho, ancora una volta, cercato di fare ciò che sentivo come l’unica cosa giusta.

Ora, nel presente, non mi resta più nulla… tranne, naturalmente, l’amore della mia famiglia… che mi schiaccia ancora di più perché anche loro sono costretti a pagare il costo di scelte che sono state mie e solo mie.

In quanto al futuro… Scusate: me lo sono già reinventato un numero eccessivo di volte ed ora sono stanco, come profeticamente scrivevo nella mia “Last Match”…

“Lanciò uno sguardo all'angolo, sentendosi insicuro,
e l'avversario riuscì a colpirlo duro.
Le ginocchia si piegarono e nella sua mente allora
soltanto quel pensiero: di rialzarsi ancora...

E l'arbitro, intanto, contava sulle dita
e lui rimuginava: "No, per dio, non è finita!

Dimentica il dolore e non pensare a niente,
ricordati che sei un combattente!

Ti è già successo di finire steso,
ma con la volontà ti sei ripreso,
lascia contare l'arbitro, magari sino a otto...
e poi in piedi, amico, e fatti sotto!"

Però ha nella mente un velo di tristezza,
forse son le ferite, o forse la stanchezza…
In ginocchio sul tappeto, puntellato sulle braccia,
ripensa a tutti i pugni sulla faccia...

Ripensa a tutti i colpi che la vita gli ha inferto,
alle rare carezze ed a quanto ha già sofferto,
al suo corpo segnato da vecchie cicatrici,
ai giorni grigi e alle notti infelici...

Ed improvvisamente, così, di punto in bianco,
gli sembra che 'stavolta sia un po' troppo stanco
e si domanda: "Ma che gusto ci provo
a rialzarmi soltanto per prenderle di nuovo?"

Sulle spalle si sente tutto il peso del mondo,
si dice che potrebbe aspettar qualche secondo...
o magari stare a terra solo per un momento...
e chiudere così il combattimento.


Nel silenzio della folla sente che fuori piove
(e l'arbitro, intanto, è arrivato sino a nove).
Lui si lascia cadere e, ora che ha deciso,
ritrova la parvenza di un sorriso”


Siete ancora abbastanza giovani, abbastanza sani, abbastanza amati?
Allora combattete, per la miseria!

Io cercherò di disturbare il meno possibile, mentre aspetto di scrivere la mia ultima canzone.

venerdì 24 ottobre 2008

PASSO E CHIUDO

Chiedo perdono a tutti.
Una nuova bufera si sta abbattendo su di me... una di troppo.
Non perdete tempo a scrivere: presumibilmente starò lontano da un monitor per un tempo indefinibile.
Ora sono troppo preso dal dovermi reinventare la vita, dallo scoprire se e come sia possibile e, prima ancora,dal capire se, poi, lo voglio davvero.

Le corde dell'Arpa sono saltate, la lama della Spada si è spezzata e la vecchia Brigadoon torna a scomparire tra le nebbie di una Scozia che esiste solo nei sogni.

Auguro, sinceramente, a tutti coloro che transiteranno in questo "luogo" le cose migliori della vita.

Io sono stanco: passo e chiudo.

venerdì 12 settembre 2008

Hemingway e la Fisica



Mi pare di ricordare che, in fisica, una legge stabilisca che i corpi, in assenza di una forza che agisca su di loro, mantengono il loro stato, sia esso di quiete o di moto. Credo valga anche per la nostra mente: è difficile rimettersi in moto dopo l'inerzia, serve una forza esterna, una spinta...
Per dirla in altro modo lasciate che parta da Hemingway e dal consiglio che era solito dare a chi gli chiedeva il suo segreto per scrivere. L'autore de "Il Vecchio e il Mare" e di tanti altri capolavori suggeriva di lasciare i tasti della macchina da scrivere quando si avevano ancora delle cose da dire, magari a metà di una frase. In questo modo si riusciva ad evitare quell'impasse che tutti coloro che hanno provato a scrivere "sul serio" ben conoscono: la famigerata sindrome della pagina bianca.
Grosso modo è quello che mi accade adesso quando mi siedo alla tastiera di un computer che, forse per empatia, funziona anche lui a stento e saltuariamente.

Tutte le parole che avete speso per auspicare il mio ritorno sono una gran cosa... ora fate uno sforzo in più: siate voi ad assegnarmi un compito, un tema, un argomento...
Questo, probabilmente, mi sarà d'aiuto nel ritrovare l'entusiasmo infiacchito.

Poi, se la fisica non mente, in assenza di attriti il resto verrà da sé ed il moto ritrovato si conserverà.

Scegliete voi, suggerite: la Vita, l'Universo e tutto il resto.
E grazie.

lunedì 25 agosto 2008

COME SI FA...



Come si fa a credere in una nuova alba quando si sono collezionati innumerevoli tramonti?
Ovvero: come si può ancora credere in un un nuovo inizio quando la Vita intorno appare ricca solo di finali, più o meno drammatici, più o meno banali...

Un tempo lo insegnavo.
Forse, oggi, avrei bisogno di qualcuno che me lo ricordi...

Molti anni or sono, in uno dei miei libri, mi accadde di scrivere: "Ogni inizio è un'iniziazione..." ma per iniziare, per essere iniziati, occorrono motivazioni che, ora, sono ancora nella mia mente ma faticano a trovare la via dello spirito, sono scheletri senza carne e sangue, come lacere bandiere di glorie passate, come patetici ricordi di stanchi reduci...

Mi cerco negli specchi e non mi trovo: c'è qualcuno che mi sa dire dove sono andato?

giovedì 31 luglio 2008

...come stavo dicendo...



Scusate: era una notte buia e tempestosa.
L'alba è ancora lontana, ma, ogni tanto, forse si può udire un gallo ottimista che chiama un sole, per altro, indifferente.
A parte il dover sostituire per l'ennesima volta il PC, a parte il dovermi ricoverare per farmi tagliuzzare qua e là da dei signori in camice verde, a parte che la Vecchia Baldracca con la Falce in spalla continua a mietere intorno a me, a parte la stanchezza che non si decide a divenire rassegnazione, la rabbia che non è più capace di diventare azione, l'autoironia che rischia di mutarsi in pena... va tutto bene.
Se qualcuno (non so se per amore o per caparbietà) continua a passare da queste parti, tra gli ormai polverosi vicoli di Brigadoon, dove l'Arpa tace e la Spada arrugginisce... ebbene: non appena avrò rinnovato la mia dotazione di computer e d'arterie cercherò di riprendere il cammino ed il discorso.
Per il momento grazie a tutti per le vostre parole... anche per quelle non dette.

sabato 8 marzo 2008

Ciao, papà


La famiglia è stata concorde nel non volere che in questa circostanza si leggessero versi o salmi, né nulla del genere.
Proverò a dire due parole io… ma senza indorare la pillola, senza quella retorica che troppo spesso si utilizza in queste tristi situazioni, senza voler far apparire il proprio caro come un santo…
Con sincerità… perché la sincerità, assieme all’onestà vera, quella delle semplici, brave persone, è una delle cose che mi ha insegnato mio padre.
E non voglio tradirla.

Negli ultimi anni, lo scorrere del tempo e i morbi che il tempo, talvolta, porta con sé, hanno preso mio padre a pugni in faccia, sconvolgendogli la vita, confondendogli talvolta la mente, ingarbugliandogli il pensiero, catapultandolo in una condizione ancora più angosciante perché arriva quando sarebbe il tempo di godersi serenamente i frutti di ciò che si è seminato e, magari, prepararsi gradualmente e con dolcezza all’addio, circondati dall’affetto dei propri cari…

Ci si ritrova, invece, disorientati, impotenti, confusi, spaventati… e da questa paura scaturisce la rabbia e, ogni tanto, l’aggressività… e, pian piano, si diventa, senza colpa alcuna, un peso per se stessi e per chi ci è vicino… perché anche chi ti ama non riesce a seguirti nel confuso mondo in cui la tua mente sta scivolando.

D’altra parte, anche prima che la malattia lo colpisse, mio padre non è stato un uomo a cui fosse sempre facile star vicini: ha avuto momenti nei quali non era facile essergli moglie… e neppure figli.

Per questo io, oggi, mi sento confortato dal fatto che Renata ed io, già grandi, si sia trovato il coraggio di parlare con lui a viso aperto, per non tenere nulla dentro, per dirgli quanto alcuni atteggiamenti del suo passato ci avessero fatto soffrire da bambini… ed ancora di più mi conforta il fatto che quel colloquio si sia chiuso dicendogli che, al di là di quegli episodi, lui era stato, comunque, un buon padre… e che gli volevamo bene.

Io voglio sperare, voglio credere, che negli ultimi istanti della sua vita sia questo il pensiero, questo il ricordo che si è fatto strada nella sua mente e lo ha accompagnato.

Da parte mia caccerò in un angolo i rari ricordi non belli della sua esistenza e conserverò invece i molti momenti lieti e, in particolare, proprio quello del giorno di quella discussione, quando, alla fine, ci abbracciammo tutti e tre piangendo e sentimmo, nel profondo, che, nel bene come nel male, eravamo una famiglia.

Perché noi Abietti siamo così: mettiamo presto le nostre radici, ci costruiamo la nostra vita, andiamo a vivere lontano e ci frequentiamo poco… ma tra la nostra gente il frutto non cade mai molto lontano dall’albero… e non siamo mai veramente distanti.

Vorrei invitare i presenti, quelli che lo hanno conosciuto e gli hanno voluto bene, a fare la stessa cosa: a ricordarlo nei suoi anni migliori, nei suoi momenti (e sono stati tanti) più gioiosi…

Ricordatelo nella sua divisa da tranviere, quando conduceva la sua vettura di notte e gli amici dell’osteria di via Genova, conoscendo l’orario dei suoi passaggi, lo aspettavano lungo i binari con un bicchiere di vino in mano… come un pit-stop della formula uno…

Ricordatelo quando, con vecchi compagni, rammentava le sue vicende di soldato prima e Partigiano poi, trasformando anche storie drammatiche in scanzonate e affascinanti avventure.

Ricordatelo quando, sotto il pergolato d’uva fragola della vecchia casa in riva al Po, impugnava una chitarra e cantava qualche vecchia canzone… o quando, con un tappo di sughero bruciacchiato, si disegnava un paio di baffi in faccia per divertire tutta la compagnia.

Ecco:ricordatelo così.

E'questo, io credo, che gli sarebbe piaciuto.

Ciao papà.

venerdì 22 febbraio 2008

GIBI'


Lo chiamavano “Gibì”.
Ufficialmente perché il suo nome completo era Giovan Battista… in realtà per alludere al “J & B”, nota marca di popolare whisky scozzese, dato che non era insolito che alzasse il gomito più del lecito.

Alcuni amici, preoccupati per come stava riducendo il suo fegato, gli consigliarono uno dei miei “stage”… e lui accettò di venire, ma non per affrontare il proprio problema: più che altro per pura curiosità intellettuale e perché, come disse dopo il colloquio preliminare con me, gli ero piaciuto.

D’altra parte avevamo molte cose in comune, ad iniziare dall’età, anche se, fisicamente, ci trovavamo agli antipodi: lui era grande e grosso per quanto io ero tappo, lui esibiva un’orgogliosa chioma leonina là dove riluceva la mia zucca pelata, lui aveva guance ben rasate e rubizze invece della mia barba precocemente incanutita…

Era un architetto, il che, data, appunto, l’età, significava che aveva frequentato la Facoltà di Architettura di Torino negli anni della grande contestazione…

Ora: chi non ha vissuto quegli anni credo non possa neppure immaginare in che cosa si fossero trasformate le sedi universitarie in quell’epoca (e in particolare quelle di architettura) sotto la spinta della frenesia creativa che giungeva dal cosiddetto “Atelier Populaire” che, da Parigi, diffondeva manifesti ed idee.

Era il tempo dell’immaginazione al potere, del “siate realisti: chiedete l’impossibile”…
Lo splendido palazzo savoiardo del Valentino che ospitava la facoltà di architettura era una fucina d’idee innovative, rivoluzionarie, talvolta strampalate ma sicuramente eccitanti. Sembrava ai futuri architetti (quasi in una sorta di allegoria massonica) d’essere chiamati non a progettare case o ponti, ma ad immaginare la “città futura”, a modellare il mondo di domani…

All’epoca in cui incontrai Gibì il ’68 era passato da venticinque anni e l’atmosfera intorno a noi era molto, molto diversa: l’immaginazione non aveva preso il potere, né l’impossibile era stato realizzato.
Anzi: una grigia e pesante cappa di restaurazione cancellava gli ultimi sprazzi di colore di una primavera durata troppo poco, consumata troppo in fretta.

Non fu difficile, durante lo stage, portare Gibì a parlare di sé: sapevo quali tasti schiacciare…
Iniziò con una pungente ed intelligente autoironia che, gradualmente, si trasformò in rabbia sorda e, infine, nella più cupa delle rassegnazioni.

“Ho fatto un solo errore!”
– mi disse – “Fermarmi per guardare indietro…”

Già: ad un certo punto della sua vita Gibì si era guardato alle spalle e, per usare una sua espressione, non aveva visto altro che la cenere di un’esistenza bruciata.
Aveva sognato di ricostruire il mondo… ma il mondo non sapeva che farsene delle sue idee e lui si ritrovava a ristrutturare vecchie fabbriche dismesse per trasformarle in centri commerciali; si era gettato in politica con l’entusiasmo e la foga di chi ha qualcosa in cui credere… solo per vedere arrivisti e maneggioni prendere un grande sogno e mutarlo in vuota demagogia; troppo preso dall’immane e futile opera della realizzazione di un ideale non aveva costruito nulla per se stesso, non aveva una famiglia, non aveva dei figli…

Ed ora non aveva più neanche il sogno.

Gli restava la bottiglia, il suo anestetico di malto delle colline scozzesi.

“Sì! Mi sto uccidendo! E allora?” – mi disse a muso duro – “Il mio lavoro mi fa schifo, la mia vita mi fa schifo… Non ho costruito niente di ciò che sognavo e sono solo come l’ultimo dei dinosauri! Ok, facciamo un patto! Io m’impegno a smettere di bere se tu mi dai una buona ragione per farlo, qualcosa che dia un senso alla mia esistenza ed in cui possa ancora credere, qualcosa che smentisca il fatto che sono inutile come una bicicletta per un pesce, superato come una parrucca incipriata!”

Un compito non facile, in apparenza: Gibì era troppo intelligente e smaliziato per essere fregato da qualche bella frase di convenienza sul valore della vita o qualche consolatoria pacca sulle spalle.

Ma io avevo l’asso nella manica, accuratamente predisposto.

Il mio asso si chiamava Dino ed aveva 18 anni.
Ciò che, invece, non aveva, era la più piccola voglia di vivere.
Schiacciato da una depressione apparentemente immotivata si trascinava privo di desideri, senza alcuna scintilla di vitalità, senza interessi, senza sogni o ambizioni.
Lo avevo osservato mentre Gibì parlava della sua giovinezza forsennata, di quelle notti passate ad immaginare il mondo di domani, di quelle piazze gremite di ragazze e ragazzi che cantavano e gridavano slogan, delle barricate, dei lacrimogeni, dell’amore rubato in un’aula magna occupata…
Avevo notato il suo sguardo farsi man mano più incuriosito, coinvolto dall’appassionata foga con cui Gibì parlava di quel regno di Utopia che avrebbe voluto costruire senza riuscirvi.

“Eccola la tua ragione…”
– dissi a Gibì indicandogli Dino – “…questo diciottenne che non è neppure l’ombra dell’ombra di quello che tu sei stato alla sua età. Lui e quelli come lui che non sanno più in cosa credere, che non hanno sogni da sognare, mulini a vento contro cui scagliarsi, barricate da erigere, mondi da progettare! Sei troppo vecchio, troppo stanco, troppo deluso per sognare ancora? Bene! Allora insegna a sognare a chi non ne è capace. Non hai avuto figli? Ecco: questo è tuo figlio… e, fuori, ce ne sono mille altri… C’è ancora tanta forza in te, vecchio mio. Devi solo scegliere: puoi usarla per costringere te stesso ad arrenderti, per avvelenarti e lentamente ammazzarti… Oppure per prendere questi ragazzi e scuoterli, trasfondere in loro tutta la passione che ti resta, narrare del passato perché riescano a credere nel futuro! Non sei riuscito a dar fuoco alla foresta? Allora prenditi cura dei singoli alberi, cazzo!”

A questo punto Dino si alzò dalla sua sedia e si accoccolò davanti a quella di Gibì. Due grosse lacrime gli brillavano negli occhi…

“Dimmelo, ti prego!”
– gli mormorò – “Dimmi come facevate ad avere tante cose in cui credere, tante cose per cui vivere! Io…io non ci riesco. Aiutami!”

E Gibì cominciò a parlare.

mercoledì 20 febbraio 2008

REDUCI... dedicata ai trentenni... che non c'erano.


E allora è venuta la voglia di rompere tutto,
le nostre famiglie, gli armadi, le chiese, i notai,
i banchi di scuola, i parenti, le "centoventotto"
trasformare in coraggio la rabbia che è dentro di noi.

E tutto che saltava in aria
e c'era un senso di vittoria...
come se tenesse conto del coraggio
la storia.

E allora è venuto il momento di organizzarsi,
di avere una linea e di unirsi intorno a un'idea,
dalle scuole ai quartieri alle fabbriche per confrontarsi,
decidere insieme la lotta in assemblea.

E tutto che sembrava pronto
per fare la rivoluzione...
ma era una tua immagine o soltanto
una bella intenzione.

E allora è venuto il momento dei lunghi discorsi,
ripartire da zero e occuparsi un momento di noi,
affrontare la crisi, parlare, parlare e sfogarsi,
e guardarsi di dentro per sapere chi sei.

E c'era l'orgoglio di capire
e poi la certezza di una svolta...
come se capir la crisi voglia dire
che la crisi è risolta.

E allora ti torna la voglia di fare un'azione,
ma ti sfugge di mano e si invischia ogni gesto che fai,
la sola certezza che resta è la tua confusione,
il vantaggio di avere coscienza di quello che sei...

ma il fatto di avere la coscienza
che sei nella merda più totale
è l'unica sostanziale differenza
da un borghese normale.

E allora ci siamo sentiti insicuri e stravolti,
come reduci laceri e stanchi, come inutili eroi,
con le bende perdute per strada e le fasce sui volti
già a vent'anni siam qui a raccontare ai nipoti che noi
...

noi buttavamo tutto in aria
e c'era un senso di vittoria....
come se tenesse conto del coraggio
la storia.

UN TRAM CHIAMATO UTOPIA


Prima di parlare, come più o meno promesso, della “comunicazione” e di come si possa migliorare la nostra capacità di capire gli altri e farci capire da loro, lasciate che vi racconti una storia che, per una volta, non è mia, non appartiene al bagaglio delle mie personali esperienze.
E’ stata disegnata, molti anni or sono, da quel geniale e mai abbastanza rimpianto autore di fumetti che si firmava con lo pseudonimo di “Bonvi”.
Purtroppo in uno dei miei innumerevoli traslochi è andato perso il numero della rivista che la pubblicò: dovrò sopperire con la fantasia là dove non mi soccorrerà la memoria, ma il succo della storia manterrà, mi auguro, il sapore originale…

Ed ora, signore e signori, andiamo a incominciare…

Milano – Esterno Notte

L’ultimo tram arranca sferragliando per le strade umide e nebbiose di una città addormentata.
A bordo, oltre al manovratore ed al bigliettaio, un piccolo campionario di un’umanità spicciola, banalmente normale, moderatamente squallida.

C’è una donna, ancora giovane, ancora avvenente, ma già ferita dalle delusioni, dagli abbandoni, probabilmente pronta a lasciarsi andare alla rassegnazione, a considerare le fantasie romantiche di cui si è nutrita come una malattia infantile dalla quale sta guarendo per approdare alla normalità di una vita senza sorprese, senza entusiasmi…

Poco distante siede, assorto nei suoi pensieri, un impiegato che rientra dopo lunghe ore di lavoro straordinario effettuate sotto la supervisione del suo dispotico e sprezzante capufficio, un uomo rozzo che sembra divertirsi ad angariarlo ed a metterlo alla berlina di fronte ai colleghi; come sempre il nostro passeggero sta immaginando le parole dure e taglienti con le quali vorrebbe rispondergli per le rime… le parole che non avrà mai il coraggio di pronunciare.

Anche il terzo passeggero sta rincasando insolitamente tardi: ha trovato scuse su scuse per rimandare il suo ritorno ad una casa in cui lo attendono quella donna che ha amato, in un tempo lontano, e che ora è per lui un’estranea rancorosa, ed i loro figli, due adolescenti pretenziosi ed irrispettosi, sempre pronti ad allearsi con la madre per rimproveragli tutto ciò che non è in grado di dar loro…

Milano – Esterno Notte

L’ultimo tram in servizio effettua una fermata ed al gruppetto di passeggeri si aggiunge un giovane con biondi capelli scarmigliati, la barba lunga ed uno sguardo stranamente lucido, brillante, che contrasta con le palpebre abbassate ed appesantite dei suoi compagni di viaggio.
Improvvisamente il giovane estrae, da una tasca della giubba militare male in arnese che indossa, una bomba a mano e, brandendola, si rivolge al manovratore ed a tutti i presenti dichiarando: “Questo è un dirottamento! Fai rotta verso Cuba!”

Sbigottiti ed allarmati i passeggeri si guardano tra loro, incapaci di credere a ciò che sta accadendo. Il manovratore tenta timidamente di spiegare che quello è un tram, non un aereo e che non crede che le rotaie possano proseguire sull’Atlantico… ma il giovane non lo ascolta neppure: baloccandosi con la sua bomba si limita a dirgli qualcosa come: “Tu pensa a guidare…”

Approfittando di un attimo di distrazione dello strano dirottatore il bigliettaio riesce ad azionare una porta, saltare giù dal mezzo in movimento e scomparire nella notte milanese, ma tutti gli altri a bordo sono ormai bloccati, nelle mani di un pazzo che vuole dirottare un tram su Cuba!

Ed a questo punto, mentre il panico inizia a serpeggiare, a bassa voce, quasi come se parlasse solo con se stesso, il giovane con la bomba comincia a narrare del posto in cui sono ora, secondo lui, diretti, inizia a parlare di Cuba…

Naturalmente non è la Cuba reale, ma quella che le sue fantasie malate stanno da tempo sognando come via di fuga da una realtà che l’opprime.
E’ un luogo di sogno, con giorni sempre inondati di sole e notti profumate dai sensuali fiori del frangipane; un’isola dalle spiagge di candida sabbia, circondata da un mare di smeraldo che nasconde preziosi coralli d’ogni colore e relitti di galeoni spagnoli ancora ricolmi d’oro, perle e pietre preziose; un Paese popolato di donne bellissime, sempre allegre e gioviali, di uomini dallo sguardo franco ed onesto…
Più ancora: è il luogo dove ogni ingiustizia è stata sconfitta, dove non si conosce il razzismo od il disprezzo del diverso, dove gli esseri umani si sentono fratelli e si aiutano a vicenda nella difficoltà… è la nazione in cui si sta costruendo una società di liberi e di uguali, profondamente diversa dalla triste burocrazia dei Paesi dell’Est, un socialismo solare, caraìbico, che ha il sapore del rum di canna ed il ritmo della rumba!

I passeggeri lo ascoltano… e sanno bene che le sue sono le fantasie di un povero pazzo.
Tuttavia…
E’ tale e tanta l’energia che si sprigiona dalle sue allucinate parole, da quel suo sguardo perso in immagini che solo lui vede e, pure, tanto vivo, tanto luminoso, che, quasi per gioco, nella loro mente iniziano a farsi strada brandelli di sogno…
E la giovane donna, senza crederci veramente, in un primo tempo, prova ad immaginarsi l’aitante cavaliere dal bel corpo abbronzato che la stringe tra le braccia, che le sussurra appassionate parole d’amore all’orecchio, sullo sfondo di un tropicale tramonto incendiario…

Ed al timido, supino impiegatuccio sfugge un sorriso mentre immagina la faccia del capufficio che riceve la cartolina dove lui è ritratto con due meravigliose mulatte sorridenti che lo abbracciano mentre sorseggia un mojito… ed arriva quasi alla risata nell’istante in cui gli sembra di vedere la rabbia che coglie il suo persecutore nel leggere il testo che lui ha vergato di sua mano sul retro della fotografia: “Buon lavoro, coglione!”

Il padre di famiglia, in quello stesso momento, sta pensando a Fidel Castro, al “Che”, alla Rivoluzione… a Marx che diceva. “Non avete altro da perdere che le vostre catene!” E riesce a vederle, queste catene: bollette, ingiunzioni di pagamento, rate, il mutuo, avvisi bancari…e le altre, quelle più pesanti, le catene di un affetto rugginoso e greve, la moglie, i figli, le responsabilità… “Un calcio a tutto” – pensa – “Certo, non si può fare, non si deve… ma, dio! Come sarei più leggero!” Improvvisamente si ricorda di quando aveva vent’anni e voleva scrivere. Gli bruciavano dentro, allora, mille storie che avrebbe voluto narrare e che seppellì da qualche parte, negli angoli più segreti della sua anima…perché… la famiglia, il lavoro… si deve crescere, che diamine!
“A Cuba” – pensa – “A Cuba riuscirei a scrivere… e non è colpa mia: è il tram che è stato dirottato…” e quasi gli viene da sperare che l’impossibile si realizzi.

Così, senza rendersene conto, iniziano a parlare tra loro di quanto potrebbero realizzare a Cuba, di cosa potranno abbandonare una volta arrivati, di come siano felici di questa nuova occasione che la vita sta offrendo loro.

Intanto il bigliettaio fuggito ha dato l’allarme.
Polizia e Carabinieri, consapevoli di trovarsi di fronte ad un pazzo, organizzano un piano: manovrando a distanza gli scambi automatici dirigono il tram verso un deposito periferico che, nel frattempo, viene esteriormente trasformato e camuffato.
Sulla sua facciata viene montata una grande insegna luminosa che reca la scritta:
“Aeroporto de La Habana” e tutt’intorno, a coronamento, molte bandierine con “un rubin, cinco fragas y un’estrella”, molte bandierine di Cuba, insomma. Tanto per non lasciare dubbi qualcuno trova anche un grande ritratto di Ernesto “Che” Guevara e lo appiccica in bella vista…

Così, agli occhi di un frastornato manovratore, ad un tratto la nebbiosa notte milanese si trasforma in un’esplosione di luci e colori ed i binari che il tram sta percorrendo finiscono, dritti-dritti, in un fantasmagorico aeroporto da favola.

Ed allora, sul tram, esplode l’entusiasmo: nessuno si chiede più come sia stato possibile realizzare l’impossibile; l’unica cosa che conta è che, ora, sono a Cuba, lontani dal grigiore della loro vita, pronti a ricominciare, a giocarsi al meglio le nuove carte che la sorte ha loro assegnate.

Ci si abbraccia, ci si congratula, ci si da appuntamento per il giorno dopo, sulla spiaggia… ed appena messo piede a terra gli agenti si lanciano sul giovane folle, gli sottraggono la bomba (che risulta finta), lo ammanettano e lo portano via…

E l’incanto, improvvisamente, si spezza, si frantuma. Le luci si spengono, si spengono le illusioni e le speranze.

Ognuno dei passeggeri è pronto a compiere una veloce, radicale, capriola mentale: da questo momento negherà anche a se stesso che, per un istante della sua grigia esistenza, ha avuto il coraggio di sognare l’irrealizzabile.

Negli occhi della giovane donna, forse, la luce resta accesa per un secondo in più, mentre osserva il ragazzo dai biondi capelli scomposti che viene trascinato lontano… ma poi anche lei si stringe nelle spalle pensando: “Bèh…in fondo era solo un pazzo!”

Milano Esterno – Notte

Non ci sono più tram.


Le persone che sanno benissimo che non si possono dirottare tram su Cuba, quelle che, con razionale cinismo logico ti guardano sorridendo e ti dicono: “L’uomo non cambierà mai!” e “Le cose sono sempre andate così e così andranno sempre”, le persone che hanno i piedi per terra e non la testa tra le nuvole, quelle che badano al concreto, che sono realiste, che non si perdono in sogni utopici adolescenziali, sono le meglio attrezzate per vivere in questa società, per avere un’esistenza normale, una normale famiglia, una normale carriera…

Gli altri, i sognatori, i poeti, i bambini mai cresciuti, i folli, spesso, molto spesso, finiscono con le manette ai polsi, in una camera imbottita o, più semplicemente, rinchiusi nel ghetto dell’indifferenza.

Ma qualche volta, qualche rara volta, la forza del loro sogno è talmente grande, l’assurda grandezza della loro visione tanto coinvolgente, che altre menti iniziano a sognare lo stesso loro sogno… e la cosa si espande, come un contagio, come un virus che cancella e modifica la realtà.

Allora loro, i sognatori, i poeti, i bambini mai cresciuti ed i folli, cambiano il mondo.

Milano Esterno – Notte

L’ultimo tram sta passando.
Che fate?

venerdì 15 febbraio 2008

RISPETTO

Scrissi, in un vecchio post in cui si parlava di “Euclide e la Bicicletta”, che “…tutto ciò che vale la pena d’essere appreso non può essere insegnato…”, intendendo, ovviamente, che la vera conoscenza nasce dall’esperienza, dai personali “vissuti”… e non dalle nozioni acquisite.

Dovremo dedurne, tra l’altro, che vi siano alcuni tipi di “sapere” che sono riservati a certe categorie umane e preclusi ad altre.
Ad esempio a me non sarà mai dato di conoscere sino in fondo cosa si provi ad essere un Nero che vive negli anni ’50 dello scorso secolo a Pretoria: posso cercare di intuirlo, farmene un’idea ragionevole…ma l’esperienza diretta non mi apparterrà mai.

Allo stesso modo vi sono “conoscenze” che appartengono ad un solo sesso…
Quel geniale borghesuccio mitteleuropeo di Sigmund Freud ci ha parlato, a proposito delle donne, di “invidia del pene”.
Forse meglio avrebbe fatto a soffermarsi anche, esaminando i maschi, su quella che potremmo chiamare “invidia della creazione”.

Nessun uomo potrà mai sapere (sapere veramente) cosa significhi sentir sbocciare un’altra vita nel proprio corpo, custodirla e proteggerla per nove lune, avvertirne la crescita, il battito del cuore, i primi movimenti, diventare due persone in una…
Nessun uomo potrà mai sapere (sapere veramente) cosa voglia dire dover decidere di strappare questa vita dalla propria.

L’aborto, per una donna, è sempre un dramma, una scelta lacerante che lascia ferite e cicatrici, che genera, anche quando sia inevitabile, sofferenza profonda… e noi uomini, che da questa tragedia intima possiamo solo essere sfiorati, su un tema di tale intensità emotiva dovremmo solo mantenere un rispettoso e partecipe silenzio.

Il massimo che dovrebbe esserci consentito è di esporre alcune considerazioni generiche, valide anche, in fondo, per ogni cosa della vita: se siamo all’interno di una casa e le porte sono aperte, chi vuole può uscirne, chi lo desidera può restare… ma se le porte stesse sono serrate a chiave anche chi volesse raggiungere l’esterno ne è impedito.
In altre parole un diritto non obbliga nessuno ad usufruirne, un divieto costringe tutti ad obbedirvi.

E’ un semplice concetto di libertà individuale, ma, detto questo, meglio faremmo a tacere ed a non entrare nel merito di una così personale e sofferta scelta che spetta alla donna (e solo a lei) effettuare, così come a lei toccherà di pagarne il prezzo emotivo.

Per questa ragione, soprattutto se maschi, ci si dovrebbe accostare al tema dell’aborto con delicatezza e riserbo.

Per questa ragione Giuliano Ferrara dovrebbe vergognarsi profondamente di se stesso.

giovedì 7 febbraio 2008

FELICE ANNO DEL TOPO


...insomma: fate del vostro meglio, eh?

sabato 2 febbraio 2008

POLITICA ITALIANA




MAI, DICO MAI, SOTTOVALUTARE I PAGLIACCI !!!

domenica 27 gennaio 2008

LA LEZIONE DELL'UOMO-RAGNO


Mi tocca esordire (non è la prima volta... e non sarà l'ultima, temo) con il rivolgere delle scuse a quelle amiche ed a quegli amici che mi hanno garbatamente rimproverato una certa latitanza, sia per quanto riguarda il blog, sia, cosa forse più grave, per ciò che concerne la corrispondenza privata.

Come coloro che meglio mi conoscono sanno, mi capita di concedermi (o d'essere costretto a prendermi) dei periodi "sabbatici" in cui rinchiudermi un tantino in me stesso.
Per fare bilanci, leccare ferite, ricaricare le batterie.
Non durano mai moltissimo e, dopo, sono in grado di ritornare sulla ribalta virtuale (parafrasando il grande Petrolini) "...più bello e più superbo che pria!"

Dopo le doverose (ma non per questo insincere) scuse potrei cercare di cavarmela dicendo che, in fondo, la gestione di un blog dev'essere un piacere e che non si dovrebbe mai farla diventare un dovere con scadenze precise ed ineluttabili da rispettare, se non si vuole, prima o poi, finire con il considerare il tutto un peso, un lavoro e, alla fin della fiera, persino una fastidiosa incombenza cui non ci si può più sottrarre!

Ma questo non basta...
Io penso che, anche tramite uno strumento effimero come un blog, ogni persona debba dar fiato alla voce (od alla tastiera) ... quando ha qualcosa da dire.

Lo so che la Rete è stracolma di blog dove adolescenti di ogni età pubblicizzano le loro quotidiane, comunissime esperienze o trascrivono ingenui versi di infantili poesiole...
Lungi da me l'idea di voler impedire alla studentessa di Voghera di parlarci dei suoi primi palpiti amorosi o dell'adorazione che nutre per il cantante pop del momento!
Sono per la libertà d'espressione di tutti... ma, nei confronti di me stesso, tendo ad impormi dei limiti più rigidi.

Io credo nella lezione che ci è stata impartita da Spiderman: a grandi poteri corrispondono grandi responsabilità.

Quello di poter comunicare i propri pensieri, le proprie opinioni, potenzialmente al mondo intero è un potere da non sottovalutare... e, appunto, dovrebbe essere trattato con un altrettanto grande senso della responsabilità personale.

Per cui, amiche ed amici, lasciate che latiti per il periodo necessario, sino a che non sentirò d'avere qualcosa che (a mio giudizio, inevitabilmente) vale la pena d'essere condiviso.

In fondo pensate a quanto sarebbe più pacato e stimolante il mondo se coloro che non hanno nulla da dire tacessero!

sabato 12 gennaio 2008

NUOVA PARENTESI PERSONALE


Sono stato sollecitato, da parte di nuovi amici della Rete, a spiegare le ragioni della scelta del nome del blog.
Credo che il modo migliore, per evitare lunghi discorsi e non tediarvi troppo, sia quello di riportare il testo di una mia vecchissima ballata ed anche il commento che la presentava...


La ballata in questione è una di quelle che amo di più... i suoi versi finali, tra l'altro, desidererei formassero il mio epitaffio.

Il che, probabilmente, la dice lunga su di me, immagino...

In questa ballata esalto quello che, secondo me, è il più antico e nobile mestiere del mondo: quello del Narratore.
Le puttane, in realtà, sono venute molto dopo.
In quanto a coloro che cacciavano o raccoglievano bacche... si trattava solo di sopravvivenza: il vero lavoro, quello che si sceglie ed in cui ci si specializza, è venuto quando qualcuno, invece di cacciare, si è messo a raccontare le imprese di caccia di un altro.

Si spostavano di territorio in territorio, seguendo i cacciatori che seguivano a loro volta le mandrie di renne... e narravano, attorno al fuoco, che, oltre le montagne, vi erano uomini con i piedi voltati all'indietro o con il viso nel ventre, draghi, tesori...

Con loro è nata la poesia, con loro l'Uomo ha imparato a sognare.

E, naturalmente, sono immortali: attraversano le epoche ed i continenti, cambiando forma, viso, voce, modo di raccontare o strumenti con cui lo fanno, ma si conservano, in realtà, sempre uguali a se stessi.

Nella mia ballata, poi, si nasconde un piccolo gioco intellettuale: riuscirete ad individuare tutti i riferimenti storici ai quali si accenna ?

Il Fabbricante di Sogni

Di notte io lancio sottili reti
per catturare i vostri segreti,
di voi io so tutto, desideri e bisogni,
è il mio mestiere: Fabbricante di Sogni.

Per un popolo antico che temeva la morte
ideai piramidi a sbarrarle le porte,
fu mio il pensiero che la strada ha aperto
a quel sogno di pietra in mezzo al deserto.

E in Britannia, assetato, durante una caccia,
un guerriero mi offrì la propria borraccia.
Guardandolo andarsene per la sua strada
sognai per lui una magica spada.

Ad una triste e bellissima terra
lacerata dall'odio e dalla guerra,
sentendo il peso di tanto dolore
offrii il sogno di un dio d'amore.

In cambio del dono di uno sparviero
sognai un vasto e potente impero,
un'Orda d'Oro e cavalli al galoppo,
per l'ambizione di un barbaro zoppo.

E toccato nel cuore e nei sentimenti
da quel triste amore d'adolescenti,
a Verona, per loro, sotto il balcone,
sognai la morte come soluzione.

Ma la vostra vita, grigia e annoiata,
non sono io che l'ho sognata:
i quotidiani, piccoli mostri
sono soltanto incubi vostri.

Di voi io so tutto, desideri e bisogni,
è il mio mestiere: Fabbricante di Sogni,
guerriero con cetra, poeta con spada,
giullare triste, bardo di strada.

venerdì 11 gennaio 2008

PERCHE' ERA LA'


(ANSA) - AUCKLAND (NUOVA ZELANDA), 10 GEN -

E' morto Edmund Hillary, alpinista ed esploratore neo-zelandese che nel 1953 scalo' per primo l'Everest. Aveva 88 anni. Lo ha reso noto la NZPA, l'agenzia di stampa della Nuova Zelanda e lo ha confermato il premier Helen Clark.
'Il leggendario alpinista, esploratore e filantropo e' il neo-zelandese piu' famoso mai esistito', ha detto.
Hillary arrivo' sulla sommita' dell'Everest, posta a 8.884 metri, assieme allo sherpa Tenzing Norgay il 29 maggio 1953.


Sin qui il freddo comunicato ANSA.
Io voglio ricordarlo per un altro particolare: quando, dopo la sua impresa, un giornalista gli domandò perché avesse deciso di scalare la montagna più alta del mondo, Edmund Hillary rispose: "Perché era là".

Ci sono sfide che non si possono rifiutare.
Sfide con se stessi, naturalmente.

lunedì 7 gennaio 2008

ALCHIMISTI E BONSAI


Lo spunto, questa volta, arriva da un commento del Capitano che, in modo criptico come si conviene a taluni argomenti, accennava ad un tema proprio della vecchia Alchimia…

La cosa, stranamente, mi ha fatto tornare alla mente una definizione dei Bonsai che ascoltai molti, molti anni or sono…

Il Bonsai, mi si disse, è una scultura lenta: la più lenta scultura del mondo.

Giorno dopo giorno, anno dopo anno, si svolge una delicata lotta tra l’Uomo, che ha in mente la sua idea di come vorrebbe si sviluppasse la sua opera, e la Pianta, che resiste per seguire la sua natura.
L’Uomo tenta di sedurre la Pianta illuminandola dove vuole che cresca e lasciando in ombra le altre parti, cerca di forzarla con il fil di ferro, con le forbici, con la propria volontà…

La Pianta, da parte sua, si ribella, ostinatamente decisa a restare padrona della propria vita…

Alla fine si realizza un compromesso tra l’Uomo, che non avrà mai una Pianta esattamente come l’aveva immaginata, e la Pianta stessa che sarà, comunque, molto diversa da come sarebbe stata senza l’intervento dell’Uomo.

Una scultura lenta, quotidiana, fatta di attenzioni continue e costanti, di piena e totale dedizione alla propria opera…

…e, con l’andar degli anni, non si capisce più se ad essere scolpita sia la Pianta… o l’Uomo.

Anche il vecchio Alchimista che, caparbiamente, si ostina a raffinare per la millesima volta la sua oncia di mercurio, alla ricerca della Quintessenza delle cose, della Pietra Filosofale, dell’Elisir degli Elisir… in realtà sta raffinando se stesso, il proprio spirito, la propria vita.

L’Alchimia, come l’arte dei Bonsai ed ogni altra impresa in cui l’Uomo sia chiamato a misurarsi con il Tempo, con la pazienza, con la devozione e, soprattutto, con se stesso, sono una grande, misteriosa e meravigliosa allegoria, al termine della quale ci aspetta il premio più ambito, l’unico per cui vale la pena di battersi, vivere e, giunto il nostro momento, morire.