lunedì 27 agosto 2007
SCUSATE...
Scusate: rubo un po' di spazio alle belle discussioni per un annuncio che è anche uno sfogo...
Se mi reco da un meccanico dicendogli che la mia auto produce un rumorino strano quando innesto la terza, lui apre il cofano, esamina il motore, all'occorrenza lo smonta e poi è in grado di dirmi che si tratta della scatola del cambio o della cinghia di trasmissione o di qualche altro marchingegno... e, subito dopo, m'informa di ciò che si deve fare, lo fa, ed io riparto con un'auto senza rumorini...
Perché, invece, se mi rivolgo ad un informatico annunciandogli che un file di World che ho aperto mezz'ora prima lavorandoci regolarmente, adesso risulta non avere più un estensione .doc e, quindi, non mi è più possibile accedervi in nessun modo, lui mi guarda con un sorrisetto tra l'ironico e l'imbarazzato e non trova di meglio che dirmi: "Eh! Qualche volta capita! Chissà cosa è successo?!" recitando in questo modo il "De profundis" per settanta pagine di un nuovo libro, tre mesi di ricerche ed un mese di lavoro?
E non mettetevi a strillare: "Ma non lo avevi salvato altrove?!" perché se con l'ultima versione salvi anche il "bug" o cosa accidenti è che ha prodotto il danno non puoi più aprire neppure la copia sul CD- Rom riscrivibile che usavi per sicurezza!
Voglio un'informatica comprensibile e riparabile come la meccanica!
Insomma: non dico tutto ciò solo per segnalare che ho un diavolo per capello, ma per avvertirvi che, per cercare di recuperare almeno in parte il tempo ed il lavoro perduto, dovrò tuffarmi anima e corpo nel riscrivere tutto e, probabilmente, gli aggiornamenti al blog ne risentiranno...
Anche perché, dato che nessuno ti spiega "COSA" è successo, continui a scrivere con la tastiera di Damocle sospesa sulla testa, aspettandoti da un momento all'altro che compaia sul monitor, una scritta del tipo : "File? Di quale file stai parlando?"
Adesso respiro con calma utilizzando il diaframma, m'immergo nella Meditazione, raggiungo la radice della profonda calma... e poi vado a dar fuoco al PC.
sabato 25 agosto 2007
STORIELLA 3 : ancora sul pensiero trasversale...
Questa storia circola come vera da un po' di tempo in Rete. Magari è la solita leggenda metropolitana, ma, in ogni caso, si presta a qualche riflessione...
Un Italiano entra in una banca di New York e chiede di parlare con un impiegato addetto ai prestiti affermando di doversi recare in Italia per un mese e d'aver bisogno di un prestito di cinquemila dollari.
Il funzionario, ovviamente, gli comunica che la banca richiede alcune forme di garanzia per concedere un prestito. Così l'Italiano tira fuori le chiavi di una Ferrari. La macchina era parcheggiata in strada di fronte alla banca. L'Italiano consegna anche il libretto di circolazione e i documenti dell'assicurazione. Il funzionario accetta di ricevere l'auto come garanzia collaterale del prestito. Il presidente della banca e i suoi funzionari si fanno quattro risate alle spalle di un Italiano che utilizza una Ferrari da 250 mila dollari come garanzia di un prestito di cinquemila. Un impiegato della banca si mette alla guida della Ferrari e la parcheggia nel garage sotterraneo della banca.
Due settimane più tardi l'Italiano ritorna, restituisce i cinquemila dollari e paga gli interessi pari a 15 dollari e 41 centesimi.
Il solitofunzionario gli chiede: "Gentile signore, siamo veramente lieti per averla avuta come cliente e questa operazione andata molto bene. Però, ci deve scusare: siamo un po' confusi. Abbiamo assunto qualche informazione sul suo conto e ci siamo resi conto che lei è un milionario. Quello che ci chiediamo è perché lei si sia dato la pena di chiedere un prestito per cinquemila dollari.
La risposta dell'italiano è laconica:
"Secondo lei dove posso trovare a New York un posto dove parcheggiare per un mese la mia Ferrari per 15 dollari e 41 centesimi e sperare di ritrovarla al mio ritorno?"
Ora: non ne siamo ovviamente consapevoli, ma il nostro cervello, nel corso degli anni, ha sviluppato degli automatismi per i quali in determinate circostanze scattano risposte preordinate... anche quando, in realtà, l'esperienza dovrebbe suggerirci che si tratta delle reazioni sbagliate.
Tentare strade nuove non è garanzia di successo... ma ostinarsi a procedere lungo vicoli che già sappiamo senza uscita è il presupposto di nuove delusioni.
Forse dovremmo provare ad usare una sorta di pensiero trasversale, "salire in piedi sulla cattedra", come accadeva nel film "L'attimo fuggente", per vedere l'aula da un diverso punto di vista...
Oppure continuare a pensare (e sbagliare) come sempre.
Fate un po' voi.
venerdì 10 agosto 2007
LE ORIGINI DELLA FEDELTA' IMPOSTA
Il più vecchio essere che possiamo definire “umano” visse in Europa (provenendo dall’Africa) circa un milione di anni or sono, giorno più, giorno meno… Ne abbiamo trovato i resti in Spagna, in Romagna, in Puglia ed in qualche altra zona sparsa per il continente. Tuttavia non si trattava ancora di un nostro antenato: all’epoca calcavano il suolo del pianeta molti “tipi” di Uomini, esattamente come c’erano (e ci sono ancora) molti “tipi” di equini, ad esempio. I nostri progenitori diretti arrivarono (anch’essi dalla Madre Africa) molto, molto più di recente: probabilmente “solo” centomila anni or sono ( i ritrovamenti più antichi, per ora, risalgono al 30.000 avanti Cristo, ora più, ora meno…). In un tempo relativamente breve eliminarono la concorrenza delle altre specie umane, sia in modo diretto (ti spacco il cranio, mi mangio il tuo cervello e mi prendo la tua grotta), sia perché “occuparono” in modo più efficiente la nicchia ecologica che era stata patrimonio delle specie meno progredite.
Avevano molti vantaggi: un’intelligenza più creativa che li aveva portati ad una tecnologia superiore e, quindi, ad armi più funzionali per la guerra e la caccia, ad esempio, e, molto probabilmente, una più solida coesione di gruppo, cosa che si evince dal fatto che possedevano riti, che seppellivano i morti con segni di rispetto verso la salma, che affrescavano le pareti delle grotte, ecc.
Erano cacciatori e raccoglitori, nomadi in quanto seguivano le mandrie di grandi erbivori nelle loro migrazioni stagionali e, con estrema probabilità, vivevano secondo una struttura sociale di tipo matriarcale. Era la donna, infatti, ad essere portatrice del “segreto della vita”, era lei a partorire (mentre il maschio non era ancora ben consapevole del suo contributo alla fecondazione) e, di conseguenza, i figli erano sue creature e, dato che ad occuparsi dei cuccioli della tribù era la collettività, non era molto importante chi fosse il padre. Certamente esisteva già l’impulso a formare una famiglia (allargata) stabile, in quanto questi nostri antenati disponevano di una sfera emozionale assolutamente vasta quanto la nostra: non si seppellisce un proprio caro con fiori sul petto ed un bel copricapo fatto di conchiglie ad ornarne il capo se non si provano sentimenti come amore, dolore per la perdita, nostalgia e rispetto!
Quindi possiamo presumere che esistesse la “fedeltà coniugale”, ma non come convenzione sociale, come scelta di tipo “etico”, quanto piuttosto come espressione spontanea di un sentimento che, tra l’altro, garantiva ulteriormente ai piccoli il massimo della protezione possibile.
La “fedeltà” era una scelta reciproca e si esercitava all’interno del Clan (famiglia allargata, appunto): ovvero non era probabilmente importante con chi ci si accoppiasse, purché il frutto del rapporto venisse ad arricchire il patrimonio umano del Clan stesso.
Le cose cambiarono bruscamente circa 12.000 anni fa (molto di recente, quindi) quando i nostri Homo Sapiens Sapiens si trasformarono gradualmente da cacciatori in agricoltori e allevatori.
Coltivare un campo significa poter rinunciare al nomadismo e garantirsi una fonte di nutrimento stabile… ma significa anche ben altro!
Le caccia è occupazione collettiva: per catturare una renna o, peggio, un mammut occorre che tutti i maschi validi collaborino in modo coordinato e, di conseguenza, il frutto della caccia viene poi suddiviso tra tutta la tribù. Non esiste, tra i popoli cacciatori, il concetto di proprietà privata: nessuno può vantare diritti sulle mandrie di bisonti… e la terra può solo essere percorsa, non posseduta!
Quando, però, si comincia a coltivarla a qualcuno viene l’idea di recintarla (all’inizio per tenere lontani gli animali) e di dichiarare che quel particolare pezzo di terra gli appartiene perché è lui che vi ha piantato i semi. La terra coltivata produce più alimenti di quanti se ne possano raccogliere dalla vegetazione spontanea, frutti in eccesso rispetto ai bisogno dell’individuo che si può permettere di retribuire con un cesto di fichi o qualche manciata d’orzo degli individui grandi, grossi e dotati di robuste clave per tener lontani gli estranei dal proprio raccolto.
Di fatto, con il primo orticello, assistiamo anche alla nascita delle prime specializzazioni del lavoro: qualcuno diviene contadino (poi si trasformerà in proprietario e farà lavorare altri al posto suo), altri si mutano in guerrieri preposti a difendere il frutto del suo lavoro.
Cosa c’entra tutto questo con la “fedeltà”? Ci arriviamo subito…
Colui che si arroga il diritto al possesso della terra e dei suoi frutti vuole avere la certezza che, alla sua morte, quella proprietà passi alla sua discendenza, al frutto dei suoi geni.
Ma com’è possibile essere certi che si tratti senza dubbio del proprio figlio, dato che si può essere sicuri della madre, ma mai del padre (mancano 12.000 anni ai test del DNA)?
Esiste solo un modo: inventarsi due “valori” che non esistevano affatto in natura e che sono conseguenza diretta del nuovo assetto sociale: la verginità delle donne (che garantisce che sarò il primo a fecondarla) e la fedeltà coniugale femminile che mi salvaguarda dal lasciare i miei possedimenti al figlio di qualcun altro.
E’ da allora, dunque, che, da un punto di vista culturale, l’infedeltà della donna è guardata con orrore (le adultere si lapidano come in Medio-Oriente o si strozzano come in Danimarca, si gettano nel Bosforo dentro ad un sacco pieno di gatti infuriati, come in Turchia o si murano vive come in India, ecc.) mentre quella dell’uomo è considerata con una certa indulgenza (che ci vuoi fare? L’uomo è cacciatore!).
Un modo di pensare non solo ingiusto: decisamente aberrante, che darà il via a tutte le storture di una società maschilista, dalle cinture di castità sino alla discriminazione sul posto di lavoro…
Ma, per tornare all’argomento di questo intervento, uno dei danni maggiori di questo modo di pensare è rappresentato proprio dallo stravolgimento del concetto di fedeltà!
Non più un gesto reciproco spontaneo nato da un sentimento, ma un “dovere” (per lo più della donna) a cui attenersi per non cadere nella riprovazione della società!
Che disperato e disperante impoverimento!
Personalmente, dato che ritengo che la proprietà privata sia un furto ai danni della collettività, mi rifiuto di aderire a questo schema di pensiero… e continuerò a restare fedele alla mia donna perché la amo, perché scelgo felicemente di cercare in lei e solo in lei la soddisfazione dei miei bisogni emozionali e fisici… e non perché “è scritto” che così dev’essere.
E mi auguro (ne sono certo, in realtà) che lei mi sia fedele per le stesse ragioni: non perché il “tradimento” sia una colpa o un peccato, non perché la società la vuole fedele e “sottomessa”: per la sola ragione che ha un valore vero ed assoluto, ovvero perché trova in me quelle stesse cose che è capace di donarmi.
In soldoni, gente: se vivete la fedeltà al vostro partner come un dovere da compiere e non come uno spontaneo frutto del vostro amore… forse non siete con la persona giusta.
giovedì 9 agosto 2007
INFEDELTA'
Sospendiamo, per un attimo, il racconto di storielle buffe per seguire un’ispirazione nata dalla lettura dell’ultimo post apparso su “Deserti di Cioccolata” di Elys, nel quale la nostra amica s’interroga sulla natura dell’infedeltà umana.
Tanto per capirci parliamo dell’infedeltà in campo sessuo-affettivo, lasciando da parte altre possibili forme di “tradimento”( come quelle verso gli amici, verso i propri ideali, ecc.) perché già così la carne al fuoco è molta…
Abitualmente quando cerco di comprendere le motivazioni profonde di un determinato comportamento umano mi rifaccio al mondo naturale, al fine di eliminare dall’analisi tutti quei condizionamenti che sono un tardivo frutto della nostra cultura, più o meno deviata da implicazioni che hanno poco a che vedere con la nostra natura.
Se osserviamo i nostri parenti stretti, le cosiddette scimmie antropomorfe, ovvero Bonobo, Scimpanzé, Gorilla ed Oranghi (con i quali, come ormai tutti sanno, condividiamo oltre il 98% del corredo genetico) è facile osservare che il “maschio alfa” si costituisce un harem e si accoppia con tutte le femmine che gli capitano a tiro.
Dal punto di vista della sopravvivenza della specie è un’ottima soluzione: garantisce la massima diffusione dei propri geni, in quanto un maschio è in grado di fecondare anche molte femmine in un giorno, mentre queste, una volta incinte, devono necessariamente portare avanti per mesi la gravidanza prima di tornare ad essere fertili.
Nel maschio di quella “scimmia glabra” che è l’essere umano una tale spinta alla diffusione del seme è ancora presente ed operante, seppur a livello inconscio, ovviamente, per cui egli sarebbe (notate il condizionale, perché c’è dell’altro) tendenzialmente poligamo. Inoltre, sempre da un punto di vista che potremmo definire “archeo-psicologico”, il “possedere” più femmine lo qualifica, appunto, come “maschio dominante”, ovvero lo rassicura sul suo “ruolo sociale” e rappresenta una forte gratificazione.
Tuttavia, nel corso dell’evoluzione della specie umana, è accaduta una cosa non da poco che ha mutato tutta questa prospettiva…
Lo sviluppo eccezionale della nostra scatola cranica (e del cervello che contiene) ha prodotto, come spiacevole effetto collaterale, sia le difficoltà del parto (nessun’altra femmina soffre tanto nel mettere al mondo un cucciolo), sia il fatto che il neonato è assolutamente dipendente dalle cure parentali per un numero di anni incredibilmente cospicuo e, anche in questo caso, assolutamente esagerato rispetto a qualsivoglia altro animale del nostro pianeta.
Una donna stremata dal parto e bloccata dalla necessità di allattare ed accudire il suo piccolo per periodi così lunghi non avrebbe possibilità di sopravvivenza (sempre allo stato di natura, naturalmente) se non potesse contare sul fatto d’avere al proprio fianco un maschio che provvede a quanto lei non è momentaneamente in grado di procurare a sé ed al piccolo.
Sempre se osserviamo ciò che accade in natura possiamo vedere che, in effetti, gli animali che sviluppano forme più o meno durature di monogamia sono quelli (come molti uccelli) i cui piccoli necessitano di un’assistenza prolungata.
Nel maschio dell’essere umano, di conseguenza, si scontrano violentemente due pulsioni contrapposte: quella a spargere il proprio seme ed affermare la propria “dominanza” che lo spinge a rapporti multipli e quella, più recente da un punto di vista evolutivo, che lo induce ad essere fedele alla propria compagna per garantire al frutto dei loro geni maggiori possibilità di sopravvivenza.
Sia detto per inciso: questa è la ragione per la quale si parla di “crisi dei sette anni” nei matrimoni e nelle relazioni: è come se per il periodo in cui il “cucciolo d’Uomo” sarebbe totalmente dipendente dalle cure parentali prevalga nel maschio l’istinto alla difesa della propria discendenza, mentre non appena questo si affievolisce per la conquistata autonomia del cucciolo, riemerga quello più antico che induce ad accoppiarsi con ogni femmina disponibile.
Tre milioni e mezzo (circa) di anni non sono moltissimi, dal punto di vista dell’evoluzione… ma dovrebbero essere in ogni caso abbastanza per consolidare un comportamento e, quindi, oggi come oggi, pur con qualche frustrazione e qualche tentennamento, il maschio della nostra specie dovrebbe aver imparato ad essere fedele alla propria compagna.
In realtà, essendo l’Uomo un animale piuttosto complesso, giocano altri importanti fattori, il primo dei quali si chiama (guarda caso) “sicurezza”.
Tendenzialmente i maschi umani che non sanno resistere alla tentazione di avventure sessuali, di trasgressioni e tradimenti della propria compagna sono inconsciamente insicuri della propria “virilità” e della propria capacità d’essere “accettati e scelti”… cosa che (alla buon’ora!) vale anche per le femmine, insicure della loro “desiderabilità”.
Chi “non sa dire di no” al bisogno di conquista e seduzione, chi ha necessità di “segnare dei punti” in campo sessuale con una collezione di relazioni occasionali e semplici “una botta e via”, ha dei grossi problemi di sicurezza e di autostima.
Questo comportamento, infatti, sia nei maschi che nelle femmine, è accettabile nella fase sperimentale (dal punto di vista sessuo-affettivo) che è l’adolescenza, dove ci si misura e ci si conferma nel proprio ruolo: se perdura oltre assume le forme di una ricerca compulsiva di continue conferme che odora di psicosi.
Il discorso non si dovrebbe concludere qui: occorrerebbe tirare in ballo quei condizionamenti culturali che ho escluso dall’esposizione all’inizio…
Uno per tutti: viviamo in una società, nel nord del pianeta, che ci sta facendo dimenticare il valore della scelta… perché scegliere vuole anche e sempre dire rinunciare… e noi non amiamo rinunciare, vogliamo tutto ed il contrario di tutto, preferibilmente senza sforzo!
Così accade che la donna desideri un compagno rassicurante, affidabile, presente e fedele… e poi lo tradisca con un fascinoso avventuriero brillante e totalmente irresponsabile; o che l’uomo voglia la madre dei propri figli “santa” com’era (secondo lui) la sua mammina per rotolarsi poi tra le lenzuola con una “Messalina” mangia-uomini… o con un transessuale.
Insomma: per garantire voi stessi dall’infedeltà altrui (e per rassicurare gli altri sulla vostra fedeltà) ci sono due regole auree:
* cercate persone che siano sufficientemente sicure di sé da non aver bisogno di dimostrare a nessuno (tanto meno a se stessi) di poter piacere e coltivate in voi questa sicurezza;
* scegliete uomini o donne che siano capaci d’essere più di una persona, che uniscano la dote dell’affidabilità alla fantasia… e tentate di diventare voi stessi capaci di farlo.
E, per finire, innamoratevi davvero e siate capaci di suscitare questo sentimento... e il resto del mondo non sarà che un palcoscenico per la vostra naturale, spontanea, fluida e non imposta scelta di fedeltà.
lunedì 6 agosto 2007
STORIELLA DUE
Vienna, verso il 1912.
Grazie al dottor Freud ed ai suoi primi allievi la psicoanalisi inizia ad affermarsi, in particolare tra la fiorente e numerosa comunità ebraica della capitale austriaca: molto spesso, in quegli esordi della nuova disciplina, sono di fede ebraica sia i dottori che i pazienti.
Dal dottor Levine si presenta un giorno il signor Goldblum, molto agitato…
“Dottore! Lei mi deve aiutare! Faccio ogni notte terribili incubi nei quali degli orrendi demoni nascosti sotto il mio letto tentano di ghermirmi per trascinarmi all’inferno! Mi sveglio tutto sudato e non ho il coraggio di muovermi perché comincio a pensare che sotto il letto ci sia davvero qualcosa di minaccioso!”
“Mmmmm… Certo, certo! Il suo inconscio segnala un disagio antico, profondamente sepolto. Si sdrai sul lettino e mi parli della sua infanzia!”
Dopo la prima seduta il signor Goldblum è invitato a ritornare dopo una settimana per altri cinquanta minuti di terapia… e questo si ripete per altre tre settimane, mentre gli incubi si fanno sempre più spaventosi.
Al sesto appuntamento, però, Goldblum non si presenta, ma il dottor Levine non è affatto preoccupato, anzi: tra sé e sé riflette che è normale, quando la verità comincia a farsi strada nella mente del paziente, che questi tenti di rifiutarla fuggendo.
Tuttavia Goldblum non rispetta l’appuntamento neppure nella settimana successiva, né in quella dopo e, per farla breve, scompare del tutto.
Passa un anno ed un sabato mattina, mentre si reca in sinagoga, il dottor Levine incontra casualmente per strada il signor Goldblum, che gli si fa incontro festoso:
“Dottore! Che piacere rivederla! Come sta?”
“ Come sta lei, piuttosto…” – risponde Levine un po’ sulle sue – “… visto che ha cessato la terapia psicoanalitica?!”
“Benissimo, benissimo: sono completamente guarito!”
“Guarito? E’ forse andato da un altro medico?”
“Oh, no! Mi ha guarito il rabbino…”
“Il rabbino?! Questo è impossibile! Come può un rabbino curare una psicosi come la sua?!”
“Dottore, lei si ricorda del mio problema, vero? Immaginavo che sotto il letto ci fossero mostri e diavoli…”
“Sì, sì, ricordo… Ma cosa c’entra il rabbino?”
“Ecco… quando gliel’ho raccontato mi ha detto:
“E tu taglia le gambe del letto!”…”
........................................................................................................................................
OK: questa volta volete essere voi a commentare per primi?
venerdì 3 agosto 2007
STORIELLA UNO
Con il presente inauguriamo una nuova serie di “post” accomunati da una caratteristica particolare: saranno tutti suddivisi in due parti; la prima conterrà una storiella buffa, una barzelletta, per farci sorridere un po’; la seconda il suo commento che, mi auguro, avrà invece il merito di spingerci a qualche riflessione. Credo, infatti, che non sempre sia necessario affrontare temi anche importanti e seri e che riguardano la vita quotidiana di noi tutti, con toni ampollosi od accademici, sfoderando paroloni e citazioni dotte: per chi ha occhi per vedere e una mente per capire le “parole di saggezza” possono svelarsi anche attraverso un raccontino buffo.
E forse, in questo modo, si ricordano anche meglio…
-------------------------------------------------------------------------------------------------
Un ricco mercante cinese si recò un giorno dal saggio monaco che viveva nei pressi del suo villaggio per chiedergli consiglio.
“Il problema è mio figlio!” – gli disse con aria afflitta – “Ha otto anni ed è un terremoto! Non obbedisce a nessuno, corre qua e là per la casa facendo cadere vasi e suppellettili, spaventa e mette in fuga gli animali del cortile, si azzuffa con gli altri bambini! Ho tentato ogni cosa: né le preghiere, né le punizioni riescono a calmarlo. Io sono spesso in viaggio per lavoro…ma la mia povera moglie che deve sorbirselo ogni ora sta diventando isterica...ed incolpa me di non sapergli imporre una disciplina! Che posso fare, Maestro?”
Il monaco restò per un istante raccolto in profonda riflessione e, poi, rispose:
“Compragli un cavallo ed insegnagli a montarlo”.
“Un cavallo?!” – si stupì il mercante – “E tu credi veramente che, se avesse un cavallo, smetterebbe di far danni?”
“Non so…” – replicò il monaco – “…ma, almeno, potrebbe andare a farli più lontano!”
-------------------------------------------------------------------------------------------------
E, adesso, dopo aver sorriso, proviamo a considerare l’ipotesi che nella risposta del saggio ci sia molto più di una semplice battuta, molto più di quanto appaia a prima vista…
Intanto potremmo considerare che il rapporto con un animale come il cavallo ha sicuramente un effetto rilassante su soggetti iper-attivi come il bimbo in questione, come ha ben dimostrato la “pet-therapy” e, in particolare, proprio l’ippoterapia.
Personalmente mi è accaduto di portare un gruppo di otto cavalli all’interno di un “istituto di rieducazione” (di un carcere minorile, insomma…tanto per non usare eufemismi) e di constatare quante e quali conseguenze positive si producessero sui giovani detenuti dal rapporto con l’animale, dal doversi prendere cura di esso e responsabilizzarsi, dal comprendere che, per “andare d’accordo” con il cavallo stesso, occorreva imparare a dosare forza e dolcezza e trovare un equilibrio…
Potremmo quindi concludere che il consiglio del monaco sia una… prescrizione di “pet – therapy” ante litteram…ma, forse, c’è anche altro…
Al Maestro non è sfuggito l’accenno al fatto che il padre, preso dal suo lavoro di mercante, è spesso lontano da casa. Probabilmente ne ha dedotto che, almeno in parte, il comportamento del bambino è un modo classico di richiedere attenzioni ad un “padre-assente”: meglio essere sgridati, meglio essere puniti, che essere ignorati!
Forse, deve aver pensato il monaco, i momenti nei quali si sente rimproverare per le sue marachelle sono gli unici in cui quel bimbo gode di una seppur distorta forma di considerazione da parte del padre…
Se costui s’impegnerà ad insegnare al figlio a stare in sella dovrà necessariamente passare del tempo in sua compagnia, presi entrambi da un’attività piacevole e divertente, e, forse, il bimbo avrà così meno motivi per cercare attraverso le sue monellerie quelle attenzioni di cui ha un disperato bisogno …
Se qualcuno di voi (padre o madre che sia) ha figli in età critica… si ricordi del consiglio del monaco cinese: talvolta basta anche qualcosa di molto più abbordabile di un cavallo: talvolta bastano anche due parole, dette al momento giusto e con il giusto tono.
mercoledì 1 agosto 2007
2 AGOSTO
Iscriviti a:
Post (Atom)