
Lo chiamavano “Gibì”.
Ufficialmente perché il suo nome completo era Giovan Battista… in realtà per alludere al “J & B”, nota marca di popolare whisky scozzese, dato che non era insolito che alzasse il gomito più del lecito.
Alcuni amici, preoccupati per come stava riducendo il suo fegato, gli consigliarono uno dei miei “stage”… e lui accettò di venire, ma non per affrontare il proprio problema: più che altro per pura curiosità intellettuale e perché, come disse dopo il colloquio preliminare con me, gli ero piaciuto.
D’altra parte avevamo molte cose in comune, ad iniziare dall’età, anche se, fisicamente, ci trovavamo agli antipodi: lui era grande e grosso per quanto io ero tappo, lui esibiva un’orgogliosa chioma leonina là dove riluceva la mia zucca pelata, lui aveva guance ben rasate e rubizze invece della mia barba precocemente incanutita…
Era un architetto, il che, data, appunto, l’età, significava che aveva frequentato la Facoltà di Architettura di Torino negli anni della grande contestazione…
Ora: chi non ha vissuto quegli anni credo non possa neppure immaginare in che cosa si fossero trasformate le sedi universitarie in quell’epoca (e in particolare quelle di architettura) sotto la spinta della frenesia creativa che giungeva dal cosiddetto “Atelier Populaire” che, da Parigi, diffondeva manifesti ed idee.
Era il tempo dell’immaginazione al potere, del “siate realisti: chiedete l’impossibile”…
Lo splendido palazzo savoiardo del Valentino che ospitava la facoltà di architettura era una fucina d’idee innovative, rivoluzionarie, talvolta strampalate ma sicuramente eccitanti. Sembrava ai futuri architetti (quasi in una sorta di allegoria massonica) d’essere chiamati non a progettare case o ponti, ma ad immaginare la “città futura”, a modellare il mondo di domani…
All’epoca in cui incontrai Gibì il ’68 era passato da venticinque anni e l’atmosfera intorno a noi era molto, molto diversa: l’immaginazione non aveva preso il potere, né l’impossibile era stato realizzato.
Anzi: una grigia e pesante cappa di restaurazione cancellava gli ultimi sprazzi di colore di una primavera durata troppo poco, consumata troppo in fretta.
Non fu difficile, durante lo stage, portare Gibì a parlare di sé: sapevo quali tasti schiacciare…
Iniziò con una pungente ed intelligente autoironia che, gradualmente, si trasformò in rabbia sorda e, infine, nella più cupa delle rassegnazioni.
“Ho fatto un solo errore!” – mi disse – “Fermarmi per guardare indietro…”
Già: ad un certo punto della sua vita Gibì si era guardato alle spalle e, per usare una sua espressione, non aveva visto altro che la cenere di un’esistenza bruciata.
Aveva sognato di ricostruire il mondo… ma il mondo non sapeva che farsene delle sue idee e lui si ritrovava a ristrutturare vecchie fabbriche dismesse per trasformarle in centri commerciali; si era gettato in politica con l’entusiasmo e la foga di chi ha qualcosa in cui credere… solo per vedere arrivisti e maneggioni prendere un grande sogno e mutarlo in vuota demagogia; troppo preso dall’immane e futile opera della realizzazione di un ideale non aveva costruito nulla per se stesso, non aveva una famiglia, non aveva dei figli…
Ed ora non aveva più neanche il sogno.
Gli restava la bottiglia, il suo anestetico di malto delle colline scozzesi.
“Sì! Mi sto uccidendo! E allora?” – mi disse a muso duro – “Il mio lavoro mi fa schifo, la mia vita mi fa schifo… Non ho costruito niente di ciò che sognavo e sono solo come l’ultimo dei dinosauri! Ok, facciamo un patto! Io m’impegno a smettere di bere se tu mi dai una buona ragione per farlo, qualcosa che dia un senso alla mia esistenza ed in cui possa ancora credere, qualcosa che smentisca il fatto che sono inutile come una bicicletta per un pesce, superato come una parrucca incipriata!”
Un compito non facile, in apparenza: Gibì era troppo intelligente e smaliziato per essere fregato da qualche bella frase di convenienza sul valore della vita o qualche consolatoria pacca sulle spalle.
Ma io avevo l’asso nella manica, accuratamente predisposto.
Il mio asso si chiamava Dino ed aveva 18 anni.
Ciò che, invece, non aveva, era la più piccola voglia di vivere.
Schiacciato da una depressione apparentemente immotivata si trascinava privo di desideri, senza alcuna scintilla di vitalità, senza interessi, senza sogni o ambizioni.
Lo avevo osservato mentre Gibì parlava della sua giovinezza forsennata, di quelle notti passate ad immaginare il mondo di domani, di quelle piazze gremite di ragazze e ragazzi che cantavano e gridavano slogan, delle barricate, dei lacrimogeni, dell’amore rubato in un’aula magna occupata…
Avevo notato il suo sguardo farsi man mano più incuriosito, coinvolto dall’appassionata foga con cui Gibì parlava di quel regno di Utopia che avrebbe voluto costruire senza riuscirvi.
“Eccola la tua ragione…” – dissi a Gibì indicandogli Dino – “…questo diciottenne che non è neppure l’ombra dell’ombra di quello che tu sei stato alla sua età. Lui e quelli come lui che non sanno più in cosa credere, che non hanno sogni da sognare, mulini a vento contro cui scagliarsi, barricate da erigere, mondi da progettare! Sei troppo vecchio, troppo stanco, troppo deluso per sognare ancora? Bene! Allora insegna a sognare a chi non ne è capace. Non hai avuto figli? Ecco: questo è tuo figlio… e, fuori, ce ne sono mille altri… C’è ancora tanta forza in te, vecchio mio. Devi solo scegliere: puoi usarla per costringere te stesso ad arrenderti, per avvelenarti e lentamente ammazzarti… Oppure per prendere questi ragazzi e scuoterli, trasfondere in loro tutta la passione che ti resta, narrare del passato perché riescano a credere nel futuro! Non sei riuscito a dar fuoco alla foresta? Allora prenditi cura dei singoli alberi, cazzo!”
A questo punto Dino si alzò dalla sua sedia e si accoccolò davanti a quella di Gibì. Due grosse lacrime gli brillavano negli occhi…
“Dimmelo, ti prego!” – gli mormorò – “Dimmi come facevate ad avere tante cose in cui credere, tante cose per cui vivere! Io…io non ci riesco. Aiutami!”
E Gibì cominciò a parlare.