
In attesa che trovi l’ispirazione per narrarvi ancora qualche significativo “tranche de vie” tratto dalle mie passate (?!) attività professionali vi voglio omaggiare con un racconto, altrettanto vero, che, in qualche modo, si ricollega ad alcuni drammatici avvenimenti odierni. Il racconto non è inedito: lo inserii in uno dei miei libri, pubblicato nell’ormai lontano 1987 e qui lo ripropongo tale e quale, a parte il taglio di un periodo che non sarebbe comprensibile estraniato dal contesto. Perdonate la lunghezza e… ecco la storia:
“All’inizio degli anni ’60 mi ero legato d’amicizia con un giovane Vietnamita che studiava in Italia: ad avvicinarmi a Nguien Tran Quoc fu, in un primo tempo, la comune passione per le filosofie orientali che, se per me aveva un sapore esotico, in lui assumeva la forma di una ricerca delle radici della sua cultura. Fu lui, tra l’altro, a farmi scoprire il Viet-Vo-Dao, l’Arte Marziale vietnamita che, allora, era pressoché sconosciuta in Europa e che contava un ristrettissimo numero di praticanti, per lo più Francesi.
Nella primavera del 1963 Nguien venne ad annunciarmi che abbandonava l’università, avendo deciso di tornare in patria, turbato da quanto stava accadendovi. Erano gli anni in cui quello che diventerà uno dei più sanguinosi conflitti di questi ultimi decenni muoveva i suoi primi passi; nelle foreste vietnamite esercito regolare e guerriglieri si scontravano in armi mentre nelle città i cortei studenteschi affrontavano le violente cariche della polizia che difendeva un regime traballante.
“C’è bisogno anche di me…” – mi disse Nguien – “sento che il mio posto adesso e là!”
Tentai, in un primo tempo, di dissuaderlo, ma era talmente risoluto nella sua scelta che compresi subito che non ci sarei riuscito.
“Perché non vieni con me?” – mi domandò invece – “Smettila di sognare l’Asia e vieni a conoscerla nella sua realtà più cruda, fuori dal sogno romantico che ne coltivi…”
A diciotto anni si può essere terribilmente impulsivi: l’idea mi affascinò in modo irresistibile, ma si scontrava con le mie possibilità economiche che erano, a dire il vero, piuttosto modeste. Non mi persi però d’animo: avevo, in quel periodo, iniziato una collaborazione con un settimanale della Svizzera italiana al quale inviavo articoli giornalistici di vario genere e proposi alla sua redazione di disporre di un “inviato speciale” in Viet-Nam che avrebbe loro spedito corrispondenze “dal vivo” di quella situazione al solo costo del viaggio. Il tormentato Paese del sud-est asiatico si stava imponendo all’attenzione del mondo e, seppure con qualche perplessità, accettarono la mia offerta al patto che corredassi i “servizi” anche con del materiale fotografico.
In quella che, a quel tempo, si chiamava Saigon, Nguien trovò da sistemarmi presso alcuni suoi gentilissimi parenti che, oltre ad offrirmi un posto per dormire e dei pranzi squisiti di una cucina povera ma raffinata, avevano anche il vantaggio di parlare perfettamente francese e divennero, in questo modo, il mio tramite per le interviste che volevo realizzare e gli articoli che dovevo scrivere.
A dire il vero, ancora preso dai miei personali interessi, mi occupavo della situazione politico-militare per quello stretto necessario che mi consentiva di non mancare all’impegno che mi ero assunto: per il resto del mio tempo preferivo andare alla ricerca di vecchi templi o farmi narrare da anziani contadini le leggende ed i miti di quella cultura.
Nguien, al contrario, si era lanciato nel turbinoso mondo dell’azione politica: lo vedevo sempre meno spesso e sapevo che trascorreva il suo tempo in riunioni studentesche semi-clandestine dove si decidevano le agitazioni e gli scioperi che sconvolgevano la vita della città.
“Mi stupisco di te!” – gli dissi un giorno – “Sei un Praticante: cosa c’entra la politica con la Ricerca della Via? Non dovresti essere superiore alla transitorietà del momento?”
“La Via è, prima di tutto, Liberazione” – mi rispose sorridendo – “Vi sono dei periodi in cui il primo dovere di un Praticante è d’impegnarsi nel gorgo degli avvenimenti quotidiani: non che voglia paragonarmi a loro, ma anche i Bodhisattva rinunciano alla perfezione del Nirvana per aiutare tutti gli esseri viventi a liberarsi dalle catene che li avvincono. .. Comunque: perché non vieni domani pomeriggio a casa mia? Ti farò conoscere una persona che t’interesserà certamente…”
Il giorno dopo mi recai da lui attendendomi d’incontrare un qualche capo-popolo studentesco o, magari, uno dei mitici guerriglieri che riempivano con le loro gesta le pagine dei quotidiani.
Ai miei occhi stupiti apparve, invece, la tonaca color zafferano di un Monaco buddhista.
Poteva avere una trentina d’anni, anche se il cranio accuratamente rasato lo faceva sembrare più vecchio. Sul suo cuoio capelluto notai i segni delle ustioni provocate dall’ardere dei piccoli coni di moxa, pratica che, in alcuni monasteri, era abituale per consentire al religioso di misurarsi con le proprie capacità di controllo del dolore…
“Questo” – disse Nguien rivolto a me – “è il Venerabile Van Tien. Sta ultimando il suo giro di saluto agli amici perché ha deciso, domani, di effettuare la “Trasformazione Seduta…”
Era la prima volta che sentivo quello strano termine, non capivo e lo dissi.
“Oh!” – mi spiegò il mio amico – “E’ un antico rito buddhista che, in questo caso, il Venerabile eseguirà come segno di disapprovazione per le uccisioni degli studenti avvenute negli scorsi giorni…”
Sentivo una strana tensione nel suo tono di voce, anche se si sforzava di mantenerlo tranquillo e colloquiale.
“In pratica” – continuò – “consiste in questo: tra non molte ore il Venerabile Van Tien, in una piazza della nostra città, si concentrerà pubblicamente in preghiera. Poi si cospargerà il corpo di benzina appiccandosi il fuoco…”
Stentavo a credere alle mie orecchie; guardavo la faccia serena del Monaco che mi sedeva accanto e sentivo l’orrore insinuarsi nel mio animo.
“E’ assurdo!” – tentai di protestare - " E’ inumano! A cosa può servire questo sacrificio?!”
“E’ difficile da spiegare ad un Occidentale…” – rispose Nguien – “Non si tratta di un sacrificio, ma di una… testimonianza, potremmo dire. Comunque tu dovresti essere un giornalista, no? Fai il tuo lavoro: vorremmo che la notizia di quanto accade in questo nostro Paese arrivasse in tutto il mondo. Puoi rivolgere le tue domande al Venerabile e, domani, non scordarti di portare la macchina fotografica…”
Mentre scrivo oggi, a più di vent’anni di distanza da quei tragici giorni, ho sotto gli occhi un’ingiallita copia della rivista che pubblicò il mio articolo… ma non vi sono fotografie.
Altri, molto più “giornalisti” di me, le scattarono. Io non ci riuscii: i miei sensi tesi sino allo spasimo non consentirono alle braccia di sollevare la Nikon.
Mi limitai a guardare.
A guardare il Venerabile Van Tien che, incredibilmente, restava composto nella posizione di meditazione mentre il fuoco lo consumava e il suo volto che, finché fui in grado di vederlo, mantenne un’espressione distaccata ed assente, serena e quasi sorridente.
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Non scattai fotografie, quel giorno.
Mi limitai a guardare…
Sino a che Nguien mi circondò le spalle con un abbraccio dicendomi gentilmente:
“E’ finita. Andiamo, ora. E smettila di piangere: oggi hai imparato qualche cosa in più, sull’Asia”.