Lasciate che, ogni tanto almeno, tratti questo blog… come un blog.A volte cedere ai ricordi è un modo di spingere lo sguardo nel futuro.
Come mi è capitato di scrivere in uno dei miei libri… “la casa in cui trascorsi una buona parte della mia infanzia era una sorta di cascinale, di solida bruttezza, che il nonno di mio nonno aveva costruito con le proprie mani sulle sponde del grande fiume che, nei suoi momenti di rabbia incontrollabile, invadeva con le sue acque le stanze al livello del suolo costringendo uomini ed animali a rifugiarsi al piano superiore.
Attorno ad essa si estendeva un piccolo terreno con orti, giardini e qualche albero da frutto, tra cui il ciliegio che fu piantato il giorno della mia nascita (…)
Mio nonno era uno strano uomo, un filosofo spontaneo, un poeta della natura capace di partire all’alba per le colline, con il cane alle terga e lo schioppo in spalla, per recarsi, diceva lui, a cacciare.
In tutta la sua vita non sparò mai una sola cartuccia: di fronte allo splendore della livrea di un fagiano od alle buffe corse delle lepri in amore s’incantava estasiato, dimentico dell’arma… e persino il cane, abituato al suo strano comportamento, evitava di muoversi o latrare per permettergli di godersi lo spettacolo miracoloso della vita…”
In gioventù era stato barcaiolo: con una lunga picca, che chiamavano semplicemente “punta”, spingeva sul filo della corrente le pesanti chiatte cariche della ghiaia e della sabbia che l’uomo rubava al fondo del fiume per trasformarle in materiale per costruire le sue case.
Sapevo a malapena camminare quando iniziò a portarmi con lui, nei giorni di riposo, a scoprire i luoghi segreti in cui nuotava la lontra, i nidi degli aironi, le colonie perdute di gabbiani che avevano dimenticato il mare…
Anche mia madre, giovane e bellissima, aveva familiarità con la pagaia e, mentre sedevo a prua di un’agile barca, mi regalava pomeriggi estivi d’avventura, spingendola nel tratto di fiume in cui il basso fondale ed i giochi della corrente formavano piccole rapide (i “correntini” erano chiamati) che, ai miei sgranati occhi di bambino, avevano il fascino di un luogo selvaggio e pericoloso…
Ma altri personaggi degni di memoria popolavano le sponde del fiume…
In un’ansa dalla quale la non lontana città era cancellata e nascosta dal fitto della vegetazione sorgeva una grande palafitta dall’aria malandata e precaria: lì viveva “l’Uomo Illustrato”.
Si mormorava che fosse stato marinaio e avesse girovagato per ogni oceano e nei più sperduti angoli di mondo. Nella calda estate non indossava mai altro che un ridottissimo slip nero, ma non era facile accorgersene: ogni centimetro della sua pelle era ricoperto da complicati tatuaggi rossi e blu che gli strisciavano sul corpo, si avvolgevano attorno a braccia e gambe, si spingevano sino a trasformare il suo viso in una grottesca maschera da selvaggio dei mari del sud.
Con l’impudente ed ingenua curiosità dei bambini osai chiedergli, un giorno, se quei misteriosi ed affascinanti disegni s’insinuassero anche sotto gli slip: se li abbassò, mostrando orgogliosamente un serpente bluastro che avvoltolava le proprie spire attorno al suo membro…
Molto più giovane dell’Uomo Illustrato era il “Bracconiere dalla barca blu”… così, almeno, era chiamato dalla Polizia Fluviale che da anni gli dava un’infruttuosa caccia.
Tutta la gente del fiume sapeva, ovviamente, di chi si trattasse, ma anche coloro che lo ritenevano un giovane scapestrato non lo avrebbero mai denunciato: la guerra era finita da poco ed ognuno s’ingegnava a sfangare la vita come meglio poteva.
Il sistema che lui aveva escogitato consisteva nel pescare usando le bombe a mano e la dinamite.
Poteva avere, probabilmente, una decina d’anni più di me e quando io mi avviavo verso i dodici/tredici, mi prese in simpatia, forse per il mio amore per il fiume, forse perché ero un buon pubblico per le sue gesta.
Sgattaiolavo silenziosissimo fuori dal mio letto in piena notte e lo raggiungevo nel canneto dove nascondeva la sua famosa barca, dotata di un potente motore che, però, non accendevamo, spingendola, invece, a forza di remi nel luogo che aveva scelto per l’impresa.
“Tieniti pronto” mi sussurrava strizzandomi un occhio…ed io afferravo il retino e mi sporgevo oltre il bordo, scrutando l’acqua alla luce della luna.
Lanciava la sua bomba ed una colonna d’acqua s’innalzava verso il cielo, accompagnata da un brontolio sordo e cupo e da onde che scuotevano la nostra imbarcazione.
Di lì a poco pesci d’ogni dimensione affioravano a pancia all’aria, bianchi sulle acque scure, ed io mi affrettavo a raccattarli con la mia rete…
L’uomo che sono ora, quello che tende a non uccidere neppure le zanzare, inorridisce al ricordo… ma il bambino sorride ancora, risentendo quel sapore d’avventura e ricordando le fughe spericolate con il motore che (ora sì!) ruggiva mentre l’elica sollevava spruzzi e il “Bracconiere”, in piedi a poppa, lanciava beffardi insulti alle barche che c’inseguivano…
Poi, un giorno, mi disse: “Vado via”…. Pensai si trattasse di una breve vacanza, ma la sua anima inquieta lo spinse sino a Marsiglia, dove entrò in un centro di reclutamento della Legione Straniera Francese e ne uscì con un quepì bianco in testa, diretto in Algeria.
Mi scrisse una sola lettera, per tutto il tempo che restò lontano. Diceva che tutto andava bene, che sarebbe tornato presto… e concludeva frettolosamente: “…ora devo lasciarti perché devo presenziare al funerale di trenta miei compagni caduti nell’ultima azione…”
Ritornò molti anni dopo, con occhi diversi…
Più pacata e rassicurante era la figura di Eligio, il traghettatore…
Non c’erano molti ponti, allora, sul grande fiume, a collegare la città con la sponda collinare. Chi voleva risparmiarsi chilometri di strada ed ore di percorso (anche i mezzi pubblici scarseggiavano) poteva scendere su una bassa riva fangosa, in un preciso punto che, per altro, non era segnalato da nulla, ma che tutta la gente del posto conosceva, portare le mani alla bocca a mo’ di megafono ed urlare, con quanto fiato aveva in gola: “Barcaaaaaaaa!”… e sperare che Eligio non si fosse addormentato nella calura d’agosto.
Prima o poi udiva il richiamo e, impugnata la punta, spingeva la barca a fondo piatto attraverso il fiume, per imbarcare e traghettare coloro che lo avevano invocato.
Quel viaggio di meno di un minuto aveva sempre, per me, un sapore di magia.
I rumori della città si stemperavano sino a scomparire del tutto, sostituiti dal quieto sciabordare dell’acqua sui fianchi della barca; l’odore di limo del fiume, unito a quello intenso dei cespugli di sambuco che crescevano sulla sponda, mi avvolgeva come un abbraccio e sembrava che il tempo stesso mutasse il ritmo del suo scorrere.
Eligio non traghettava semplicemente le persone sulla riva destra del fiume: apriva una porta arcana su un mondo di meraviglie inattese, di alberi imponenti come cattedrali, di rosse volpi che tentavano di forzare con astuzia le gabbie dei conigli e topi campagnoli che rubavano alle galline in cova le uova, afferrandole saldamente con le zampe, pancia all’aria, e lasciandosi poi trascinare da un compagno per la coda…
Quando incontrai i libri di Tolkien compresi che ero stato un ragazzino molto, molto fortunato: avevo passato la mia infanzia nella Contea, tra la mia bizzarra, a volte inquietante e sempre meravigliosa gente del fiume…